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Notizie sulle Reliquie


Il dito di Santa Caterina da SienaInizio con un brano tratto da Giovanni Sicari «Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma», Monografie Romane, Alma Roma 1998:
"Il culto delle reliquie, derivante dalle onoranze per i defunti, è oggi raccomandato ma non imposto dalla Chiesa. Il Concilio di Trento nella sua venticinquesima sessione lo emendò dagli eccessi e il Concilio Vaticano II così si espresse: "La Chiesa, secondo la sua tradizione, venera i Santi, le loro reliquie autentiche e le loro immagini". Le reliquie sono i resti mortali dei santi canonizzati o dei beati venerati o anche gli oggetti a loro collegati come: strumenti di martirio, vesti, utensili che sono tanto più preziosi quanto più stati a contatto con il vivente. Tra le reliquie corporali si distinguono le Insigni
 così definite dal Codex Juris Canonici: il corpo, la testa, un braccio, un avambraccio, la lingua, una mano, una gamba o la parte del corpo che fu martirizzata, purché sia intera e non piccola.
Nei primi secoli la Chiesa romana fu contraria alla traslazione e alla manomissione dei corpi dei santi che venerava in basiliche costruite sulle loro tombe. Alle continue richieste di chi desiderava possedere dei resti sacri, rispondeva donando reliquie ex contactu, cioè pezzi di stoffa messi a contatto con le tombe venerate o con oli che ardevano nei santuari. Le basiliche cimiteriali, divenute insicure per le incursioni barbariche, depredate d'alcuni corpi santi da Astolfo re dei Longobardi per la città di Pavia, vennero abbandonate e le salme traslate nelle chiese della capitale. Nel collocare i resti dei santi nelle nuove tombe, a volte, si separava la testa o altre parti dal corpo per venerarli in diversi luoghi, tra questi il più famoso fu, dai tempi di S. Leone III (795-817), la cappella di S. Lorenzo nel patriarchio del Laterano. Dopo centinaia d'anni d'oblio solo nel XVI secolo, grazie anche all'interesse suscitato da S. Filippo Neri, negli antichi cimiteri cristiani vennero riprese le ricerche di reliquie. Si riesumarono "corpi santi", "martiri inventi" che venivano trasferiti nelle chiese della città. Il ritrovamento nei loculi di semplici balsamari o d'epitaffi recanti simboli di fede erano sufficienti, per la metodica dell'epoca, come prova dell'avvenuto martirio. Grazie a Pio XI che istituì, nel 1925, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana oggi si ha il massimo rigore scientifico e storico nel riconoscere i martiri dai semplici cristiani sepolti negli antichi cimiteri.
Le reliquie custodite nelle chiese di Roma costituiscono un'altra incommensurabile ricchezza della nostra città che, nonostante le varie vicissitudini storiche, ha saputo salvaguardare. Il presente scritto non vuole solamente riscoprire e catalogare questa eredità, ma ambirebbe raggiungere lo scopo di liberarla da quella sorta di "velatura" della sua memoria, formatasi in epoca recente, che tende a negarla per mancanza di documentazione comprovante l'effettiva presenza di reliquie in quel particolare luogo sacro.
Per questa ricerca mi sono principalmente avvalso di tre opere:

1 - Xavier Barbier de Montault, l'année liturgique a Rome, edita da Spithover nel 1870, che redige l'Inventaire des pricipales reliques de chaque église, capitolo fondamentale, citato per brevità "Inventario 1870".
2 - Il Diario Romano per l'anno del Signore 1926, Tipografia Poliglotta Vaticana, opera nella quale vengono segnalate tutte le cerimonie dei Santi e l'esposizione delle loro reliquie a Roma.
3 - Placido Lugano, le Sacre Stazioni Romane, Libreria Editrice Vaticana 1960, seconda edizione postuma di dodici anni. In quest'ultimo scritto, menzionato "P. Lugano 1960", vi è l'elenco delle reliquie insigni possedute dalle basiliche.
..............................................

Giovanni Sicari"

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Dal sito del CICAP riprendo questo articolo:

"Valeva la pena di parlarne. Il Dizionario critico delle reliquie e delle immagini miracolose1 di Collin de Plancy, oggetto della mia tesi di laurea, ha suscitato interesse tra il pubblico del VI convegno nazionale del Cicap. La sessione di poster "L'insolito all'Università" ha così consentito agli interessati di storia del paranormale religioso di discutere su questo testo poco conosciuto e oggi molto difficilmente reperibile. Ma che cos'è il Dizionario critico delle reliquie e delle immagini miracolose2? Si tratta di un vasto repertorio alfabetico, pubblicato a Parigi negli anni 1821-22, degno della migliore tradizione enciclopedica settecentesca, che elenca tutte le reliquie e le immagini miracolose esistenti o esistite in Europa fino a quegli anni, corredato di aneddoti e informazioni sui culti sviluppatisi al loro cospetto e sui racconti prodigiosi ad esse relativi.
Un'overdose di reliquie, quindi, di spoglie mortali di santi, di parti di esse e dei più svariati oggetti che si pretendeva fossero appartenuti a Gesù, alla Vergine, ai santi o semplicemente che avessero avuto un minimo di contatto fisico con loro. Un'overdose di immagini, soprattutto mariane, alle quali, al pari delle reliquie, si attribuivano poteri miracolosi di diverso genere. Emerge la testimonianza di una religiosità di gusto necrofilo che l'autore, erede dei lumi del XVIII secolo, si propone di arginare inducendo il lettore alla riflessione razionale e al senso critico. Un proposito che egli persegue informando su tutte le assurdità legate a tali culti, come l'esistenza di una stessa reliquia in svariati luoghi diversi o rimarcando il gusto macabro o l'origine pagana soggiacente a molti aspetti di questa discutibile forma di religiosità, che egli considera completamente estranea al messaggio evangelico.
Per farci un'idea circa lo stile e il contenuto del Dizionario delle reliquie, diamo la parola a Collin de Plancy:
"ALBANO, - primo vescovo della Gran Bretagna. Il suo corpo, che fu visitato mille anni dopo la sua morte, fu trovato così integro come se fosse stato vivente, ma si corruppe non appena lo sistemarono nella sua cassa. Questo corpo era ad un tempo, nel quattordicesimo secolo, in Inghilterra, a Roma e a Colonia." 3
"FELICITA,- martire in Africa nel terzo secolo, con santa Perpetua. Il suo corpo era quadruplo. Lo mostravano a Roma, a Bologna, a Vierzon nel Berry e nel monastero di Dèvre, nella stessa provincia. Non si sa dire come il corpo di questa santa sia venuto da Cartagine in Europa. Un'altra santa Felicita patì il martirio a Roma, con i suoi sette figli nel secondo secolo; i leggendari dicono che ella non morì con una qualche dolcezza se non dopo aver visto massacrare tutti i suoi figli, che ella temeva di lasciare al secolo. Il suo corpo e quelli dei suoi figli furono per lungo tempo perduti. Si è saputo tuttavia ritrovarli e li si onora a Roma nella chiesa di San Marcello." 4
Non è difficile notare l'ironia sottile e critica sulle leggende che giustificavano, in modo non sempre credibile, il ritrovamento dei corpi, secoli dopo la loro sepoltura. Naturalmente, ogni esemplare della stessa reliquia aveva, nella maggior parte dei casi, la sua leggenda a sostegno della propria autenticità.
Macabri feticci di dubbia origine, insomma, che presentati tutti insieme in un così vasto archivio non possono evitare di farci riflettere. Pensiamo, ad esempio, al racconto evangelico di S. Giovanni Battista e teniamo conto che, per secoli, esso fu tenuto vivo nel ricordo dei fedeli non solo tramite l'esposizione di una quindicina di teste, che Collin de Plancy rintraccia in alcune chiese europee, ma anche tramite parti distaccate, la cui enumerazione non può che suscitare disgusto:
"Un cervello di S. Giovanni è nell'abbazia di Tiron (...), un altro a Nogent-le Rotrou. Un orecchio sta a Parigi, un altro a Saint Flour e un altro ancora a Praga. Si ricordano inoltre una quarantina di altre teste che non possiamo indicare esattamente con sicurezza." 5
Ma veniamo ai miracoli. Le leggende sulle reliquie e sulle immagini raccolte da Collin de Plancy sono straripanti di soprannaturale e, in molti casi, servivano a sanzionare quei culti superstiziosi che trasformavano la venerazione dei santi in una pratica di medicina alternativa. Molti santi diventavano così titolari di poteri terapeutici assolutamente individuali e fra loro diversificati. Come, ad esempio:
"GUALTIERO, - primo abate di Saint-Martin de Pontoise. Il suo corpo rimase nella sua abbazia, dove egli era morto nel 1099. I religiosi di questa abbazia benedicono un'acqua, nella quale immergono un osso del santo, che essi chiamano acqua di San Gualtiero; essa guarisce dalla febbre. (...)" 6
Pratiche di tipo magico, quindi, e di conseguenza infiniti racconti di miracoli, ai quali l'autore dimostra di non credere. E li confuta, seguendo un filo conduttore assolutamente razionale, degno della migliore tradizione voltairiana e straordinariamente attuale:
"Ma che pochi miracoli ci sarebbero se li si potesse esaminare da vicino, si può persino dire che non ne esisterebbero affatto." 7
Attraverso moltissimi esempi, l'autore ci illustra come i miracoli appartengano quasi sempre a un passato favoloso e incontrollabile, quando non sono eventi di normale origine naturale, attribuiti a fattori soprannaturali per momentanea non conoscenza delle cause scatenanti. Oppure, essi sono il risultato di errori di valutazione o di vero e proprio inganno, sovente considerato necessario perché finalizzato a ciò che veniva considerato un bene supremo. Di fatto, le "pie frodi" hanno rappresentato per secoli un inganno a fin di conversione, un mezzo troppo spesso preferito dagli ecclesiastici per indottrinare il popolo e creare nel contempo vere e proprie industrie del miracolo. Le offerte estorte ai più semplici tramite disgustose menzogne erano solo una delle discutibili conseguenze dell'ingegnosità di chi intendeva mantenere la propria posizione di potere, limitando l'altrui capacità e libertà di giudizio.
"(...) Crocifisso di Boksley. Dopo che Enrico VIII ebbe soppresso i conventi in Inghilterra, tra gli strumenti delle pie frodi che vennero scoperti in questi superbi asili della fannullonaggine si parla soprattutto del famoso crocifisso di Boksley, che si muoveva e camminava come una marionetta. Questo crocifisso veniva chiamato Statua di Grazia. (...) I monaci, sempre ingegnosi, avevano abilmente inventato delle molle che facevano muovere a piacimento questo miracoloso crocifisso; e questa santa industria aveva per lungo tempo edificato gli inglesi devoti e procurato grandi profitti al monastero. (...)" 8
Tramite il rifiuto delle pie frodi, Collin de Plancy esprime e sostiene la necessità di una società caratterizzata dal diritto alla corretta informazione. Una società dove nessuno potrebbe più ingannare impunemente altre persone, per nessuno scopo, una società dove nessuno dovrebbe sottostare a un'autorità interessata a mantenere il popolo in una sorta di eterna infanzia intellettuale e culturale. La conoscenza storica e scientifica diventa perciò un diritto di tutti e la sua diffusione viene elevata a dovere morale, al quale le persone colte non si possono sottrarre.
Il nostro autore delega quindi alle persone "illuminate" 9 il compito di diffondere un'informazione seria, egualitaria e rispettosa della dignità di ogni essere umano. Quest'ultimo, in sostanza, è il messaggio del Dizionario delle reliquie, un ideale democratico difficile da accettare per coloro che cercavano di governare la società francese dei primi decenni del XIX secolo promuovendo l'ideologia di una necessaria Restaurazione politica e religiosa dopo gli sbandamenti della Rivoluzione e dell'Impero. Un ideale col tempo rinnegato anche dallo stesso Collin de Plancy che, dopo circa vent'anni dalla pubblicazione del Dizionario delle reliquie, si converte ad un Cattolicesimo obbediente e acritico, diventando in questo modo strenuo difensore di tutto ciò che aveva precedentemente criticato. La sua scrittura diventa così paladina delle gerarchie ecclesiastiche del suo tempo e produce molte opere a difesa dei concetti di autorità e di tradizione.
Viene da chiedersi quanto questa conversione possa considerarsi sincera... Di fatto, indagando sulla biografia dell'autore, emerge che, dopo la pubblicazione del Dizionario delle reliquie, egli dovette affrontare alcuni problemi seri, tra i quali un processo, subito proprio per aver pubblicato tale opera. Nel frattempo, la Francia e l'Europa in genere vedevano uno straordinario revival della magia nonché la diffusione di gruppi esoterici e sette sataniche che sembravano potenzialmente capaci di sostituire la religione cristiana tradizionale con una accozzaglia di superstizioni di vario genere."L'uomo ha bisogno di fede, se rifiuta la vera cade nell'altra" 10, dichiara Collin de Plancy convertito, giustificando così il suo impegno per la causa cattolica.
Ma al lettore di oggi nulla offrono le sue opere di convertito.
La conversione di Collin de Plancy lascia perplessi se si tiene conto che il Dizionario delle reliquie non aveva lo scopo di demolire la fede cristiana, ma anzi, di restituirla alla lettera del Vangelo, depurandola da tutti quei culti feticisti, superstiziosi e assurdi che la inquinavano.
In ogni caso, lasciando da parte i dubbi sulla sincerità della conversione del suo autore, il Dizionario delle reliquie resta un documento che ancora oggi parla al lettore, donandogli elementi utili per uno sguardo disincantato sul paranormale religioso e proponendo un'etica umanistica che non necessita di dogmi e di miracoli. Un messaggio più che mai attuale, che eleva la razionalità a valore assoluto, irrinunciabile e trasversale a ogni fede o ideologia, unica porta di accesso verso un effettivo progresso scientifico e ideologico.
Clelia Canna
Segue le problematiche del paranormale religioso.
Fa parte del CICAP Gruppo Lombardia

Bibliografia
Collin de Plancy. 1821-22. Dictionnaire critique des reliques et des images miraculeuses. Paris. Guien.
Note
(1) Collin de Plancy. 1821-22. Dictionnaire critique des reliques et des images miraculeuses. Paris. Guien.
Nel seguito dell'articolo, per brevità, ci riferiremo a quest'opera in termini di Dizionario delle reliquie.
Ibidem, Vol. I, p. 10
Ibidem, Vol I, p. 305
Ibidem, Vol. II, p. 28
Ibidem, Vol I, p. 348
Ibidem, Vol. II, p. 68
Ibidem, Vol. I, pp. 203-204
Ibidem, p. LVIII
Collin de Plancy. 1864. Légendes des commandements de Dieu. Paris. Plon. (p. 6)"
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Da siti di svariate chiese, riprendo la parte che riguarda le reliquie conservate:

Santa Croce in Gerusalemme
BASILICA - CAPPELLA DELLE RELIQUIE

Le Reliquie della Passione del Signore furono conservate e venerate per più di un millennio nella cappella semisotterranea dedicata a S.Elena, l'anziana madre dell'imperatore Costantino, alla quale - secondo la tradizione - si deve il ritrovamento della Croce di Gesù.
Nel 1570, a causa dell'umidità dell'ambiente, furono trasferite in un vano sopra la cordonata di destra, a cui si accedeva attraverso la clausura del monastero e con speciali permessi.
Tale collocazione non consentiva agevolmente il passaggio dei pellegrini, il cui flusso andò aumentando nei tempi moderni.
Per questo, durante l'Anno Santo del 1925 si pensò di costruire una Cappella di maggiore capacità e più facile accesso.
L'attuale "Santuario della Croce" è stato ricavato nell'antica Sacrestia della Basilica su progetto dell'architetto Florestano Di Fausto.


L'idea sottesa all'opera è quella del pellegrinaggio al Calvario meditando il mistero della Passione e Morte di Gesù, tema efficacemente espresso dai simboli lungo il percorso:varcato l'ingresso - in fondo alla navata di sinistra della Basilica - si entra subito nel clima meditativo davanti alla teca con la "Pars Crucis Boni Latronis"; poi una gradinata conduce al Vestibolo attraverso una porta a forma di croce: salendo i gradini si ripercorre la Passione di Gesù con le Stazioni della Via Crucis (in 14 gruppi bronzei di Giovanni Nicolini) alternate a citazioni tratte dal Nuovo Testamento e dalla Liturgia del Venerdì Santo; infine, dal Vestibolo e al di là di un'iconostàsi, si giunge alla visione delle Reliquie, custodite in sei preziosi reliquiari, realizzati del tutto o in parte nel corso dell'800 per sostituire quelli antichi confiscati nel 1798 dalla Repubblica Romana.
La Cappella, realizzata in marmi policromi e arricchita anche dalle vetrate artistiche del Picchiarini e dai mosaici realizzati su disegno di Corrado Mezzana, fu inaugurata nel 1930 e ultimata nel 1952.
I reliquiari sono stati custoditi in un armadio incastonato nella parete di fondo, che ne permetteva una visione solo frontale. Dopo la traslazione dell'11 novembre 1997, sono ora sull'altare della Cappella, completamente visibili e protetti da una teca di cristallo.
 
RELIQUIE DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

E' tradizione antichissima che una parte della Croce del Signore sia stata portata a Roma e venerata nella Basilica Sessoriana.
Lo attestano le fonti tardo-antiche e medioevali e ne danno conferma gli antichi rituali delle funzioni papali, che fissano l'Adorazione della Croce il Venerdì Santo in Hierusalem: il Pontefice in persona procedeva scalzo dalla Basilica Lateranense e processionalmente, con il clero e il popolo, andava alla Basilica Sessoriana per adorarvi il Legno della vera Croce.
Nel corso dei secoli, poi, svariati frammenti del Sacro Legno sono stati prelevati proprio dalla Reliquia Sessoriana per essere donati dai Pontefici a personalità e santuari: Gregorio Magno ne mandò una particella in dono a Reccaredo, re dei Visigoti; Leone X ne fece estrarre una parte per donarla a Francesco I , re di Francia (1515) ; Urbano VIII (1623-1644) volle donarne una parte alla Basilica Vaticana; anche Pio VI, PioVII e Pio IX fecero prelevare altre particelle.
Pur essendo una reliquia così antica, dunque, può presentare numerosi documenti che attestano la sua invenzione, traslazione, conservazione e venerazione.
 
Anche per quanto riguarda il Chiodo la tradizione è antica e costante: a S.Elena, infatti, si attribuisce anche il ritrovamento dei chiodi con i quali Gesù era stato crocifisso. L'Imperatrice ne fece mettere uno nella corona e uno nel freno del cavallo di Costantino. Un altro lo portò con sé a Roma.
E' probabilmente quello di cui parla Gregorio di Tours : S.Elena, nel tornare dalla Palestina, trovando il mare molto agitato, fece immergere in acqua uno dei chiodi della Crocifissione e al suo contatto il mare si calmò.
E' da sempre annoverato tra le Reliquie Sessoriane e, insieme a quello di Milano, è tra quelli più anticamente documentati.
Per la reliquia del Titolo - la tavoletta di legno con una parte dell'iscrizione Jesus Nazarenus Rex Iudaeorum in ebraico, greco e latino - la tradizione ad un certo punto lascia il passo alla storia: Stefano Infessura nel suo Diario, in data 1 febbraio 1492, racconta che questa reliquia fu casualmente ritrovata durante i lavori di restauro in Basilica voluti dal card. Mendoza.
Chiusa in una cassettina con il sigillo del card. Caccianemici - titolare di S.Croce e poi papa col nome di Lucio II (1144-45) - era stata murata ab antiquo nell'arco che separa il transetto dalla navata centrale.

Nell'antichità le reliquie venivano spesso messe in alto nelle chiese per preservarle dai furti, ma nel caso del Titolo pare se ne fosse persa memoria, poiché erano cadute le lettere musive che ne indicavano la collocazione.
La notizia del ritrovamento fece molto scalpore all'epoca, anche perché coincise con la riconquista spagnola di Granata, ultima roccaforte degli Arabi in Occidente. Papa Alessandro VI il 29/7/1496 emise la bolla Admirabile sacramentum con cui autenticava il ritrovamento del Titolo e concedeva l'indulgenza plenaria a coloro che avessero visitato S.Croce l'ultima domenica di gennaio.
La tradizione, invece, non attribuisce a S.Elena il ritrovamento della Corona di Spine. Di questa reliquia si sa che era venerata a Costantinopoli già ai tempi di Giustiniano. Durante l'Impero Latino d'Oriente (1204-1261) ne vennero in possesso i Veneziani.
Nel 1270, poi, l'ebbe S. Luigi Re di Francia, che la pose nella Cappella del Palazzo Reale. Successivamente passò alla chiesa abbaziale di S.Dionigi (1791) e infine nel 1806 fu trasferita a Notre Dame, dove è conservata tuttora. E' priva di spine che invece sono sparse in molte chiese.
Alle Reliquie della Passione di Cristo, nel corso dei secoli sono state aggiunte altre reliquie, quali i frammenti della grotta di Betlemme del S.Sepolcro e della colonna della Flagellazione, il patibulum del Buon Ladrone e la Falange del Dito di S.Tommaso, per completare la Catechesi sulla Passione.
Per la Chiesa e per i pellegrini di ieri e di oggi, infatti, le Reliquie sono preziosi strumenti di catechesi, segni di un fatto certo, la cui venerazione può aiutare la meditazione sulle sofferenze che ricordano e riproporre il valore salvifico della Croce.
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VIAGGIO TRA LE RELIQUIE DI SANTA CATERINA


La Testa di Santa Caterina è certamente la reliquia più importante ed è conservata nella cappella dedicata alla Santa posta nella basilica di San Domenico di Siena. Fu staccata dal corpo della mantellata senese nel 1381 per volere di Papa Urbano VI; la borsa in seta che contenne la  Testa durante il viaggio da Siena a Roma è conservata nella celletta di Santa Caterina presso la Casa-Santuario dove sono conservati anche il pomo del bastone sul quale era solita appoggiarsi e la lampada per recarsi di notte allo Spedale di Santa Maria della Scala a svolgere l'opera di infermiera volontaria.
   Per quattro anni la testa rimase chiusa in un armadio della sacrestia di San Domenico, ma una volta che il Concistoro della Repubblica venne a conoscenza del fatto, dette ordine di tributare onori pubblici alla preziosa reliquia. Così il 5 maggio 1385 una imponente processione, condusse la
reliquia in San Domenico partendo dalla chiesa dell'Ospedale di San Lazzaro, fuori Porta Romana. Chiudeva la processione un gruppo di Mantellate di san Domenico e Lapa, la madre di Caterina.
   Un'altra importante reliquia è il dito conservato anch'esso nella Basilica di San Domenico; con questa reliquia viene impartita la benedizione all'Italia e alle Forze Armate nel pomeriggio della domenica che si tengono le Feste internazionali in onore di Santa Caterina da Siena.     Questa reliquia, insieme alle cordicelle con le quali la mantellata senese era solita disciplinarsi e al busto in bronzo che per tanti anni ha contenuto e protetto la testa, è conservata nella teca posta nella parete
destra della Basilica di San Domenico, teca che attualmente è stata tolta per far posto ad un'altra, di artistica realizzazione, opera dell'architetto senese Sandro Bagnoli, dove troveranno migliore collocazione sia il dito che le altre reliquie della Santa; questa realizzazione è dovuta alla sensibilità dimostrata dalla dottoressa Laura Martini della Soprintendenza dei beni artistici di Siena e Grosseto e alla perseveranza del parroco Padre Alfredo Scarciglia.
   Un piede della Santa è conservato nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, la stessa chiesa dove riposa fra' Tommaso Caffarini autore della Legenda Minor.
   Era presente nel Duomo di Siena anche una costola della Santa, essa però fu donata al santuario di Santa Caterina ad Astenet in Belgio costruito nel 1985 per volontà dei Caterinati di quel paese.
   Anche il Santuario ha la sua reliquia; essa è una scaglia di una scapola di Caterina. E' conservata ed è ben visibile, in una urna scavata nel muro a sinistra dell'altar maggiore dell'Oratorio del Crocifisso. Nella teca vi è una testina in cera raffigurante la Santa. Questa reliquia è stata
donata al Santuario dalla professoressa Lidia Gori, caterinata e figlia del professor Giulio Gori il quale, nel 1931 insieme ai professori Mazzi, Raimondi, Lunghetti e Londini operarono una ricognizione sulla reliquia della Sacra Testa, ricognizione voluta dall'allora podestà Fabio Bargagli
Petrucci.
   Al 1931 risale anche il reliquiario che contiene la Testa oggi; esso è in argento decorato a smalto opera dell'orafo fiorentino David Manetti che lo realizzò su disegno di Angelo Giorgi, noto argentiere. Il prezioso reliquiario in stile gotico fu donato dai Padri Domenicani di San Marco di Firenze ai Padri Domenicani di Siena.
(f.to Franca Piccini)
- LA SACRA TESTA
     Nell'ottobre del 1381 il Papa Urbano VI dette il permesso di staccare dal busto la testa di Santa Caterina, la quale venne affidata a due frati senesi, Tommaso della Fonte e un altro, che la portarono a Siena in segreto.
   La borsa in seta che contenne la Testa durante il viaggio da Siena a Roma è conservata nella celletta di Santa Caterina presso la Casa-Santuario.Per quattro anni rimase chiusa in un armadio della sacrestia di San Domenico, ma una volta che il Concistoro della Repubblica venne a conoscenza del fatto, dette ordine di tributare onori pubblici alla preziosa reliquia. Così il 5 maggio 1385 una imponente processione, condusse la reliquia in San Domenico partendo dalla chiesa dell'Ospedale di San Lazzaro, fuori Porta Romana. Chiudeva la processione un gruppo di Mantellate di san Domenico e Lapa, la madre di Caterina.
   Nella notte tra il 3 e il 4 dicembre del 1531, la Sacra Testa rischiò di
essere distrutta; infatti nella chiesa di San Domenico scoppiò un violento
incendio; solo il coraggio di fra' Guglielmo da Firenze mise in salvo la
reliquia, infatti il frate si avvolse in un lenzuolo bagnato e si gettò tra
le fiamme traendo in salvo la Testa.
   Dal 1711 la Testa venne collocata in un'urna, opera di Giuseppe Piamontini, noto orafo fiorentino dell'epoca e dono dell'illustrissimo Pietro Biringucci Maestro di camera del Gran Principe di Toscana Cosimo III; quest'urna oggi è conservata nella basilica di San Domenico in una cappella a destra dell'altar maggiore. Fino ad allora la reliquia della Testa era custodita in un busto di rame sbalzato, che attualmente è conservato nella teca delle riliquie della Santa posta a destra della cappella affrescata dal Sodoma in San Domenico.
   Nel 1798 la Testa venne trasferita in Duomo, poiché un forte terremoto aveva danneggiato la Basilica di San Domenico, nella quale fece ritorno solo nel 1806 in occasione della domenica in Albis.
   La Sacra Testa venne portata in processione nel 1857 in occasione della visita di Papa Pio IX e in quella circostanza si dovette effettuare una revisione ad opera del professor Gaspero Mazzi.
   Nel 1931 l'allora podestà di Siena Fabio Bargagli Petrucci, fece rompere i sigilli e aprire la teca per far valutare ai professori, Mazzi, Raimondi, Lunghetti, Londini e Gori le reali condizioni di essa.
   Al 1931 risale anche il reliquiario che contiene oggi la Testa; esso è in
argento decorato a smalto opera dell'orafo fiorentino David Manetti che lo realizzò su disegno di Angelo Giorgi, noto argentiere. Il prezioso
reliquiario in stile gotico fu donato dai Padri Domenicani di San Marco di
Firenze ai Padri Domenicani di Siena.
   Il 28 aprile 1940 la Sacra Testa fu portata in cattedrale in occasione delle prime feste nazionali cateriniane.
   Il resto è storia recente. Nel 1996, in occasione del XXV° anniversario
della proclamazione di Santa Caterina a Dottore della Chiesa Universale, la Testa è stata esposta in Duomo alla venerazione di tutti i fedeli. Fu
trasportata in Cattedrale dai figuranti della contrada dell'Oca e del Drago
in corteo guidato dai Padri Domenicani.
   Così come nell'anno 2000, in occasione della prima edizione delle Feste Internazionali in onore di Santa Caterina patrona d'Italia e d'Europa, la reliquia della Sacra Testa fu portata in Duomo con una solenne processione alla quale partecipò molta gente e il Cardinale Dannels, primate della Chiesa del Belgio, presiedette la celebrazione eucaristica.
                                                                                                            (F.to Franca Piccini)
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LE RELIQUIE DI S. AGATA
Il Busto

Dal 1376 la testa e il torace di sant'Agata sono custoditi in un prezioso reliquiario d'argento lavorato finemente a sbalzo e decorato con ceselli e smalto. Ha l'aspetto di una statua a mezzo busto, con l'incarnato del volto in fine smalto e il biondo dei capelli in oro. In realtà, però, è un raffinato forziere, cavo all'interno, in cui sono custodite le reliquie della testa, del costato e di alcuni organi interni. L'allora vescovo di Catania, un benedettino francese oriundo di Limoges, l'aveva commis- sionato in Francia, nel 1373, all'orafo senese Giovanni Di Bartolo.
 La devozione dei fedeli arricchisce continuamente di gioielli, ori e pietre preziose la finissima rete che ricopre il Busto. Tra gli oltre 250 pezzi che a più strati ricoprono il reliquiario, alcuni sono doni di particolare valore. La corona, un gioiello di 1370 grammi tempestato di pietre preziose, fu, secondo una tradizione non confermata, un dono di Riccardo I d'Inghilterra detto "Cuor di Leone", che giunse in Sicilia nel 1190, durante una crociata. La regina Margherita di Savoia, nel 1881, offrì un prezioso anello, mentre il vicerè Ferdinando Acugna una massiccia collana quattrocentesca. Vincenzo Bellini donò alla patrona della sua città un riconoscimento che era stato dato a lui: la croce di cavaliere della Legion d'Onore. Anche papi, vescovi e cardinali negli anni hanno arricchito il tesoro di sant'Agata di collane e croci pettorali, oggetti preziosi che si aggiungono ai tantissimi ex voto che il popolo catanese continua a offrire alla "santuzza".
Nella stessa data in cui fu realizzato il Busto, gli orafi di Limoges eseguirono anche i reliquiari per le membra: uno per ciascun femore, uno per ciascun braccio, uno per ciascuna gamba.
I reliquiari per la mammella e per il velo furono eseguiti più tardi, nel 1628. Attraverso il vetro delle teche, che protegge ma non nasconde, durante la festa di sant'Agata si può vedere il miracoloso velo, una striscia di seta rosso cupo, lunga 4 metri e alta 50 centimetri, che le ricognizioni garantiscono ancora morbida, come se fosse stata tessuta di recente. Attraverso il reliquiario della mano destra e del piede destro si possono scorgere i tessuti del corpo della santa ancora miracolosamente intatti.

Lo Scrigno

Le reliquie del corpo, che per secoli furono conservate in una cassa di legno (oggi custodita nella chiesa di Sant'Agata la Vetere), dal 1576 si trovano in uno scrigno rettangolare d'argento alto 85 centimetri, lungo un metro e 48, largo 56. Il coperchio è suddiviso in 14 riquadri che raffigurano altrettante sante che onorano Agata, la prima vergine martire della chiesa. All'interno si conservano anche due documenti storici: la bolla pontificia di Urbano II che conferma solennemente che sant'Agata nacque a Catania e non a Palermo, come voleva un'altra tradizione, e una pergamena del 1666 che proclama sant'Agata protettrice perpetua di Messina.

La Reliquia del Seno
 
Fra tutte le città italiane di cui sant'Agata è compatrona, Gallipoli e Galatina, in Puglia, sono coinvolte in una singolare contesa che vede come protagonista una reliquia di sant'Agata, la mammella.
Una leggenda diffusa in Puglia spiegherebbe con un miracolo la presenza della reliquia a Gallipoli. Si dice che 1'8 agosto del 1126 sant'Agata apparve in sogno a una donna e la avvertì che il suo bambino stringeva qualcosa tra le labbra. La donna si svegliò e ne ebbe conferma, ma non riuscì a convincerlo ad aprire la bocca. Tentò a lungo: poi, in preda alla disperazione, si rivolse al vescovo. Il prelato recitò una litania invocando tutti i santi, e soltanto quando pronunciò il nome di Agata il bimbo aprì la bocca. Da essa venne fuori una mammella, evidentemente quella di sant'Agata.
La reliquia rimase a Gallipoli, nella basilica dedicata alla santa, dal 1126 al 1389, quando il principe Del Balzo Orsini la trasferì a Galatina, dove fece costruire la chiesa di Santa Caterina d'Alessandria d'Egitto, nella quale è ancora oggi custodita la reliquia, presso un convento di frati francescani.

Le altre Reliquie
A Palermo, nella Cappella regia, sono custodite le reliquie dell'ulna e del radio di un braccio. A Messina, nel monastero del SS. Salvatore, un osso del braccio. Ad Alì, in provincia di Messina, parte di un osso del braccio. A Roma, in diverse chiese si conservano frammenti del velo. A Sant'Agata dei Goti, in provincia di Benevento, si conserva un dito. Altre piccole reliquie si trovano a Sant'Agata di Bianco, a Capua, a Capri, a Siponto, a Foggia, a Firenze, a Pistoia, a Radicofani, a Udine, a Venalzio, a Ferrara.
Anche all'estero si custodiscono piccole reliquie di sant'Agata. In Spagna: a Palencia, a Oviedo e a Barcellona. In Francia: a Cambrai Hanan, Breau Preau e Douai. In Belgio: a Bruxelles, a Thienen, a Laar, ad Anversa. E ancora, in Lussemburgo, nella Repubblica Ceca (Praga) e in Germania (Colonia).
Tratto da: Maria Torrisi, Sant'Agata, Ed. S.Paolo
Cinisello Balsamo (MI) 1997

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Reliquie:
un macabro culto dei
cadaveri nel XX° secolo
L’insegnamento di Gesù non è mai stato pagano

Molti pellegrini che verranno a Roma per l’Anno Santo faranno visita alle numerose reliquie a Roma. Il Cristo dovrà inorridire, poiché tutto ciò è contrario al Suo insegnamento. Egli condusse gli uomini a Dio e non disse loro di adorare ossa decomposte e parti di cadaveri mezze imputridite, imbalsamate o avvizzite. Il Suo insegnamento non è mai stato pagano.
Un’assurdità: prepuzi come reliquie sacre

Ciò nonostante ancor oggi nelle chiese e nelle cattedrali di molte città si conservano e si venerano ancora oggetti, vesti e resti di cadaveri: “Alcune chiese affermano di possedere le fasce del bambino Gesù. I Monaci di Charroux espongono addirittua il prepuzio della sua circoncisione. Come prova della sua autenticità affermano che di tanto in tanto ne fuoriescono delle gocce di sangue. Anche altre chiese affermano comunque di essere in possesso del sacro prepuzio, comprese le chiese a Coulombs, in Francia, la Chiesa di S. Giovanni a Roma e la chiesa di Puy a Velay.”
(Wilder, The Other Side of Rom, p. 54)
Reliquie - una tradizione pagana

Prendiamo come esempio l’Egitto: “L’Egitto era cosparso di tombe del suo dio ucciso: molte delle sue membra, gambe e braccia ed anche il teschio, dei quali si garantiva l’autenticità, venivano esposte nei luoghi di sepoltura in concorrenza tra loro, in modo da poter essere venerati dai fedeli.” (Hislop, The Two Babylons, p. 179)
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Il furto delle sacre teste degli apostoli Pietro e Paolo dalla basilica del Laterano

Aprile 1438: Roma é scossa dal furto più sacrilego della sua storia. Nottetempo qualcuno é riuscito a rubare i preziosi che ornano - tuttora - i reliquiari in cui sono conservate le teste degli apostoli Pietro e Paolo, venerate nella basilica di san Giovanni in Laterano. Come é stato possibile ? Chi sono i colpevoli ? Scattano le indagini e la Camera apostolica attiva tutti i birri, le spie e i confidenti che circolano per la città. Alla fine, al mercato de' Pellegrini, presso Campo de’ Fiori, dove si trovano le botteghe degli orefici e degli intagliatori di pietre preziose, qualcuno commette una fatale imprudenza.
La nostra guida dell'epoca é messere Stefano Infessura, notaio del popolo romano...

Del 1438 a dì 12 d’aprile Capocciolo et Garofalo, doi beneficiati di Santo Ioanni Laterano, furorono molte prete pretiose, zafiri, balassi diamanti, ametisti et perle dallo capo di santo Pietro e santo Paolo, che stanno nello tabernacolo di Santo Ioanni preditto in doi volte, et furo retrovati per questo modo.
Servestro de Pallone comprò una perla de grande valore per trenta ducati, et fu una contesa con l’orefice et questo Servestro; et in questo modo venne ad notitia de molti, et quando fo saputo chi l’haveva venduta, subito fo sospicato et fo scoperto, et subito fu preso misser Nicola de Valmontone, canonico de santo Ioanni, perché Garofolo suo nepote li lo deo a tenere, et lui iuravo che non era vero, et che non ne sapeva niente, et esso lo sapeva; da poi che fu saputa la verità et retrovate le pietre, tutte foro reportate a Santo Ioanni a dì 22 de Agosto con tutta la processione di Roma e giro lo Senatore di Roma con tutti li Offitiali con tutto lo popolo, et lo Senatore lesse la scommunica che fece papa Urbano V, lo quale pose lì quelle teste et ornolle colle ditte prete.
Eodem anno die quarta de settembre furo desgradati questi malfattori, idest missore Nicola da Valemontone canonico, Capocciola et Garofolo, beneficiati, nello altare maiore dell’Aricielo; et dopo foro rencarcerati nella piazza di Campo de Fiore relevati su in alto, et lì stetteronce dij quattro, et dello ditto mese foro iustitiati in questo modo, videlicet Capocciola et Garofalo furo strascinati per fino alla piazza di santo Ioanni, et missore Nicolao gio a cavallo nello somaro, tutti immetriati. Lo ditto messer Nicola fo appeso nell’ormo della Piazza di Santo Ioanni, ad Capocciola et Garofalo li foro mozze le mano ritte, et poi foro arsi nella ditta piazza, et le ditte mani furo chiavellate accanto alla lopa de metallo, in quello muro, come delle preditte cose si vede la memoria penta come s’entra la ecclesia de santo Ianni ad mano ritta su ad alto.

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Le ritrovate reliquie della Passione di Gesù

I pellegrinaggi di Sant'Elena e di altri

Quando Costantino unificò l’Impero e restituì  alla vista e alla venerazione di tutti il luogo della risurrezione del Salvatore, l’augusta sua madre Elena, convertitasi al Cristianesimo, intraprese, malgrado la sua tarda età, un viaggio in Oriente per visitare tali santi luoghi (326 d.C.).
Partita da Roma sul finire di quell’anno, raggiunse Cesarea e di lì Gerusalemme dove erano state ritrovate la tomba di Cristo e in una cavità poco distante le croci18 sulle quali crocifissero il Salvatore e i ladroni Disma e Gesta.
Dalla croce del Nazareno, che aveva rivelato le sue virtù taumaturgiche19, Sant’Elena prese tre frammenti che furono portati:
-          a Roma, nella basilica di S. Croce di Gerusalemme che fu fatta realizzare da Sant’Elena20;
 a     - Costantinopoli, nella basilica della Sapienza detta anche di  S. Sofia21;
   -    al vescovo Macario, nella stessa Gerusalemme. Questo frammento era  quello più considerevole e fu consegnato da Sant’Elena in un astuccio d’argento22.
 - La santa dalla Palestina portò, inoltre:
-               alcune spine della Corona che cingeva il capo di Gesù;  esse furono collocate in un reliquiario e  custodite nella cripta della basilica Sessoriana  (o S. Croce di Gerusalemme) in Roma23;
  -     i tre chiodi che trafissero le mani ed i piedi di Gesù, di cui uno fu conservato nella stessa cripta Sessoriana con la Corona di spine, un altro  fu inviato all’arcivescovo Agrizio (o Aquizio)24 perché  fosse custodito nella basilica di Treviri25, l’ultimo fu donato alla chiesa di  S. Giovanni in Monza26;
-              - i ventotto gradini del Praetorium (detta Scala Santa) percorsi da Gesù flagellato e coronato di spine27 quando si presentò a Pilato.
Durante  la permanenza in Palestina, Sant’Elena effettuò delle ricerche che condussero al ritrovamento della grotta della Natività a Betlemme e del luogo (sul monte degli Olivi) dove Gesù incontrò i suoi discepoli dopo la risurrezione (prima di salire al cielo). In queste due località Ella fece costruire due basiliche che suo figlio Costantino arricchì d’oro e di argenti.
La notizia del ritrovamento della Croce del Redentore  comportò che i pellegrini, in numero sempre crescente, si recassero a Gerusalemme. Per la loro profonda venerazione verso il Salvatore, alcuni di loro asportarono dalla Croce dei frammenti di legno.
 Sul finire della prima metà  del IV secolo, il vescovo Cirillo scriveva che “ il mondo è pieno di frammenti della Croce”28 e S. Giovanni Crisostomo29 dice che molte persone a Costantinopoli portano, in reliquiari d’oro attaccati al collo, una particella della Vera Croce30.
Tra i più illustri pellegrini che si recarono a Gerusalemme per pregare sul sepolcro di Cristo e cogliere l’occasione di prendere qualche frammento del santo Legno si ricordano:
          Paolo di Tebe, monaco egiziano vissuto tra il 228 e 340, il quale si prosternò davanti alla Croce “quasi pendentem Dominus cerneret “31.
          Il pellegrino di Bordeaux recatosi a Gerusalemme nel 333 riferì di aver visto “ la collinetta del Golgota su cui il Signore fu crocifisso e, a un tiro di pietra (m.40), la cripta in cui il Suo corpo fu deposto e donde il terzo giorno risuscitò”32.
          Desiderio, che fu invitato nel 393 da  s.Girolamo33 e dalla venerabile Paola34 a recarsi in Terrasanta solo per potersi mettere in adorazione dove sono posati i piedi del Signore è per lo meno un atto della nostra fede, senza contare, poi, la possibilità di contemplare le tracce – che sembrano del tutto recenti- della Natività, della Croce e della Passione35.
          Silvia Eteria (o Egeria)36, che, recatasi in Terrasanta nel 395 per visitare l’Anastasis, il Martyrium e ad Crucem (= Calvario), riportò nel suo “Peregrinatio Aeteriae” l’episodio di un fedele che, chinandosi sulla Croce per baciarla, ne distaccò un pezzo con un colpo di denti37.
          Paolino di Nola o di Bordeaux (353-431 d.C.)38 riferisce di aver ricevuto  un frammento della Croce da Melania Seniora39, a sua volta ricevuto, durante il soggiorno in Terrasanta, da Giovanni, patriarca di Gerusalemme. Di tale frammento, Paolino ne inviò  una scheggia “ non più grande di un atomo” al suo amico Sulpicio Severo, che glielo aveva chiesto per la chiesa che stava costruendo sulla tomba di S.Chiaro, a Primulachium, in Aquitania40.
          Il monaco Cosma, già custode della Croce della chiesa del  S.Sepolcro sino al 466, e suo fratello Crisippo41 ne inviarono diversi al monastero di sant’Eutimio.
          L’imperatore d’Oriente Giustino  II  (565-578 d.C.)  e sua moglie Sofia ne donarono a papa Giovanni II  (561-574 d.C.). Esso è contenuto in un medaglione incastonato in una croce latina di rame alta 41 cm. e rivestita di lamine d’argento dorato. Le braccia della  croce ,all’incrocio delle quali c’è il predetto medaglione, recano la seguente iscrizione:

LIGNO QUO CHRISTUS HUMANUM SUNDIDIT HOSTEM
DAT ROMAE IUSTINUS OPEM ET SOCIA DECOREM

  Questo reliquiario, denominato Crux Vaticana, fa parte del Tesoro di s. Pietro in Roma42.
        L’igumeno Stefano43, del monastero di S.Eutimio, fece incastonare alcuni dei frammenti in suo possesso in una croce d’oro ornata di pietre preziose; uno dei frammenti  fu donato a un benefattore del monastero, tale Cesare, originario di Antiochia44.
 Quando la Palestina era stata mèta di pellegrinaggi per via dei ritrovamenti dei Luoghi Santi45 ed erano stati elevati monasteri e chiese, le città marinare di Amalfi, Genova, Pisa e Venezia avevano rapporti commerciali con l’Oriente bizantino.

NOTE

18 Secondo la testimonianza di s. Cirillo riportata nella ”Catechesi” XIII,4,p.33, scritta nel 347 (Gaetano Moroni “Dizionario di erudizione stor. eccl, - vol. XVIII, Venezia 1843, p.234). S.Cirillo nacque  a Gerusalemme tra il 313-15. Fu elevato alla sede  episcopale di Gerusalemme e consacrato vescovo da Acacio,  Metropolita di Cesarea tra il 348 e 351.
19 A riconoscere la croce di Gesù dalle altre due si giunse attraverso due miracoli: una donna moribonda riacquistò la salute  appena toccata la vera Croce (E.Ianulardo “Sant’Elena imperatrice” –Tip. Sant’Agata di Puglia,1958,p.123; G. Moroni, o.c.,p.235);  Un morto, steso sul Legno, risuscitò ( Andrè Parrot, o.c., p.41;  Rouillon O.P., o.c., p.181; Secondo la “Storia Ecclesiastica “ di Rufino, I, 7,8;  Rizzoli-Larousse, o.c.,vol.IV,Milano 1967,p. 679.
20 G. Moroni, o.c., p.234.
21 Ibidem               p. 234
22 Ibidem               p. 235
23 Ibidem               p. 287;  E. Ianulardo, o.c., p. 142.
24 E. Ianulardo, o.c., p. 146.
25 Città della Germania occidentale costruita al tempo di Costantino il Grande.
26 Questo chiodo, secondo la tradizione, sarebbe stato destinato a formare l’anello di ferro che corre all’interno della Corona ferrea  conservata nel duomo di Monza fatto costruire da Teodolinda, regina dei Longobardi, morta nel 628 d.C. ( Rizzoli-Larousse, o.c., vol. IV, p. 536).
27 Scala di accesso alla cappella della Sancta Sanctorum  o  cappella di S. Lorenzo presso il Laterano.
28 S. Cirillo  “ Catechesi” 4,10.
29 S. Giovanni  Crisostomo, Padre della Chiesa d’Oriente e Patriarca di Costantinopoli  (344-407).
30 Rouillon O.P., o.c.,  p. 173.
31 N.U. Gallo “ La Croce Patriarcale della Basilica di S. Sepolcro di  Barletta “-  Ediz. Gazzetta della Provincia , p.64.
32 Geyer  “Itinera Hierosolymitana  20-23 ( Cfr. Andrè Parrot, o. c., p.40).
33 S. Girolamo (347- Betlem 420)  nel  335 si rifugiò in Oriente, a Betlem , con Paola ed Eustochio, dove fondò monasteri con ospizi per i pellegrini ( S. Girolamo “Le Lettere”; traduzione  e note di Silvano Cola, vol. I, lettere I-LII –Città Nuova Editrice, Roma 1962, p.354, lettera XLVII).
34 Paola (347-404), figura di cristiana e di monaca , legò la sua vita a quella di  s. Girolamo. Era nobile romana discendente da parte del padre dagli Abradi e da parte della madre dai Gracchi e dagli  Scipioni  (Giuseppe Stoico “L’epistolario di  s. Girolamo” – Napoli, 1972, p.67).
35 N.U. Gallo, o.c. a p.64  dice, invece: “…ove avrebbero potuto vedere la Croce e i segni lasciati dalla Passione di Gesù  Cristo”.
36 Monaca spagnola o gallica.
37 N.U. Gallo, o.c., p.66.
38 Di ricca famiglia senatoria, a 25 anni console, nel 379 governatore della Campania, prete nel 394, vescovo di Nola dal 409 al 431. Mantenne scambi epistolari con S. Agostino, S. Ambrogio e S. Girolamo. (Rizzoli-Larousse, o.c., vol XI;  Giuseppe Stoico,  o. c., p.63).
39 Melania Seniora (Roma 349-350/Gerusalemme 410), matrona romana; rimasta vedova, giovanissima si stabilì a Gerusalemme, dove fece costruire un monastero (378; considerata santa, mai riconosciuta ufficialmente) (Rizzoli-Larousse, o.c., vol.  IX, p.677).
40 Rouillon O.P., o.c., p.183 ;  N.U. Gallo, o.c., p.65.
41 Crisippo  (409-479) entrò con i fratelli Cosma e Gabriele come monaco della “laura” di sant’Eutimio presso Gerusalemme; ordinato sacerdote (455) divenne custode della santa Croce nella chiesa del S. Sepolcro a Gerusalemme ( Rizzoli - Larousse,  o.c.  voI. V, p.660 ).
42  Rizzoli – Larousse, o.c. vol. IV, Milano,1967,p.679;  N.U. Gallo,  o. c., p.62.
43 Stefano di Costantinopoli, detto il Giovane (715-764), monaco e martire, era igumeno  nel monastero di Sant’Aussenzio presso  Calcedonia;  combattè  l’iconoclastia e venne esiliato (762) per ordine dell’imperatore Costantino V. Riportato prigioniero a Costantinopoli nel 763, fu in seguito ucciso da alcuni ufficiali di palazzo ( Rizzoli-Larousse, o.c., vol.XIV,Milano,1971, p.376).
44 N.U. Gallo, o.c., p.68.
45 Erano legati alla vita di Gesù: la grotta di Betlemme, Nazareth, monte Tabor, il Cenacolo, il Calvario, la chiesa del s. Sepolcro, il Getsemani
(COPYRIGHT 2000 REGIONE PUGLIA  -  C.R.S.E.C.  BA/1   BARLETTA)

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ANNO 328 d.C.
QUI il riassunto del PERIODO di COSTANTINO  dal 306 al 337 d.C.

L'ANNO 328
* LA TERRASANTA
* ROMA CAPITALE DELLA CRISTIANITA'?
* ELENA A CACCIA DI RELIQUIE

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La comunità cristiana nella zona egiziana e palestinese era considerevole come numero e aveva alcuni autorevoli rappresentanti che erano capaci di farsi ascoltare, e non si confondevano con quelli Orientali o di Roma. Elena dovette dare molto ascolto a Macario e compagni, e con lui fece ricerche che non sappiamo quanto furono fruttuose e vere, ma sappiamo che scavando sul Golgota trovò tre pezzi di legno della Santa Croce, un chiodo, due spine della Corona e l' intero braccio della corona del Buon Ladrone. (ma trovò - ma non sappiamo se fu lei - anche qualcosa di stranissimo che citeremo a parte, in fondo).
Elena riunì i frammenti e vi fece costruire la attuale basilica della Santa Croce a Gerusalemme per custodirli, fece iniziare i pellegrinaggi dalle zone circostanti, poi se ne tornò a casa con parecchie reliquie non prima di aver comunicato a tutto il mondo utilizzando i corrieri postali di suo figlio Costantino, che erano state trovate le testimonianze del grande mistero di Gesù Cristo, dov'era nato, vissuto, morto e risorto e che si poteva ormai considerare il cristianesimo la vera e unica religione di Stato, cosa che poi Costantino si affrettò a fare, inviando un editto in ogni territorio dove si affermava appunto questa sua scelta (non aveva però ancora specificato di quale corrente, anche perché quella di sua madre era in contrasto  con la sua che a Nicea aveva rafforzato).
IL PREPUZIO DI GESU' CRISTO - Fra queste reliquie si disse anche che era stato trovato e ben conservato (come lo poteva essere è un mistero - ma la provvidenza fa questo e altro ) il pezzo di prepuzio di Gesù Cristo, toltogli quando - al pari di tutti maschietti ebrei- era stato circonciso. Le discussioni di quegli ecclesiastici in un consesso subito formatosi furono accanite, ma la vinse la corrente che diceva essere una testimonianza inoppugnabile. Da queste fonti l'autore che scrive non è riuscito a ricavare molto, ma è certo che o subito o in un secondo tempo questa reliquia fu portata in Italia, a Roma, e più precisamente nella chiesa di CALCATA sulla Cassia, alle porte di Roma (vicino all'odierno autodromo di Vallelunga).
Lì è rimasta questa reliquia venerata da tutto il paese fino a pochi anni fa (1970) nel giorno appunto della Circoncisione di Gesù Cristo, che come sappiamo cade il giorno di Capodanno, 1° Gennaio; e proprio in tale giorno veniva mostrata ai fedeli, finché un bel giorno il parroco della chiesa, comunicò ai propri fedeli che era stata rubata, cosa che molti non credettero e commentarono che essendo diventata quella reliquia un po' imbarazzante era stata "messa da parte".
Forse un po' in ritardo, perché non c'era mai stata mai nessuna certezza sulla sua autenticità , ma il fatto della sua sparizione andò a promuovere nei fedeli -non più da Medioevo- pensieri un tantino irriverenti. E speriamo che anche nel raccontare questo episodio nessuno ci accusi di altrettanta irriverenza, ma è un fatto storico che sta a significare come certe credulità siano nate arbitrariamente e fatte credere, da chi non aveva scrupoli a strumentalizzare fino a questo punto queste isteriche ingenuità così molte diffuse nel periodo di cui stiamo parlando.

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La venerazione delle reliquie
“Il Santo Concilio comanda ai vescovi e a coloro che hanno la funzione e l'incarico di insegnare [...] di istruire con cura i fedeli sugli onori dovuti alle reliquie [...], mostrando loro che i corpi santi dei martiri e degli altri santi, che vivono con il Cristo e che furono membra viventi di Cristo e tempio dello Spirito Santo [...], attraverso cui benefici numerosi sono accordati da Dio agli uomini, devono essere venerati dai fedeli”.
I decreti del Concilio di Trento 984 e 985, che fissano le linee di fondo della dottrina cattolica sulle reliquie, rappresentano il punto di arrivo di un processo, che affonda le sue radici nella pietas dei primi cristiani verso il corpo dei martiri. Essa riflette, almeno alle origini, non tanto il culto riservato dal mondo grecoromano agli eroi-culto che, al tempo in cui apparve il cristianesimo, mal si distingueva da quello riservato agli dèi -, quanto piuttosto gli usi funerari normali. Essi consideravano la sepoltura, la cura del corpo del defunto, le feste commemorative della morte, come doveri sacri; leggi rigorose proteggevano il luogo della sepoltura come luogo sacro, ne vietavano la profanazione e impedivano lo spostamento del corpo. L'importanza che il martirio assunse nella teologia, nell'apologetica, nella vita dei cristiani dei primi tre secoli sviluppò un vero culto dei martiri e delle loro reliquie, di cui il documento più antico è ìl Martyrtum Policarpi.
Nel culto delle reliquie - soprattutto per quanto riguarda gli sviluppi successivi al III sec. - confluisce, accanto alla pietas funeraria amplificata dalle dottrine relative al martirio e alla santità, anche l'idea che la potenza salvifica degli uomini di Dio sia un qualche cosa di fisico, che rimane inerente al corpo, vivo o morto, del santo, e che, da questo, possa trasmettersi agli oggetti che, in forme più o meno dirette, ne sono venuti in contatto. È una concezione molto antica, che si trova nella tradizione giudaico-cristiana (ad esempio, in 4 Re, 2,14, il prodigio operato dal mantello di Elia, ripreso dal miracolo evangelico dell'emorroissa. In Luca, 8, 46, Gesù dice: “Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me”), ma che è precedente ad essa e riflette una concezione magica delle reliquie.
Se, da un punto di vista dottrinale, i pronunciamenti ufficiali della chiesa non hanno mai cessato di insistere sul fatto che il culto reso ai santi consiste in onori riservati a uomini di cui si vuole celebrare la particolare unione con Cristo, e che i miracoli sono compiuti non dalle reliquie, ma da Dio attraverso di esse, tuttavia, a partire dal IV sec., i comportamenti concreti e generalizzati, che portarono a uno sviluppo abnorme ed incontrollabile delle reliquie, sembrano piuttosto allinearsi con la concezione poco sopra esposta.
Se le sedi di più antica cristianizzazione disponevano di numerose ed autentiche reliquie dei martiri, le nuove sedi (ad esempio Costantinopoli) le ottennero mediante traslazioni o smembramenti dei corpi, secondo un uso proibito dalle leggi imperiali (Codice Teodosiano, IX, xvn) - che fu prevalentemente orientale fino all'VIII sec. per divenire in seguito generalizzato.
Nel IX sec. troviamo un papa, Pasquale I (817-824), che fa spostare dentro Roma duemilatrecento corpi, che distribuisce fra le diverse basiliche. L'idea che il possesso del corpo di un santo costituisse, per la città, il villaggio, la basilica, un presidio insostituibile contro le malattie, le calamità, i disastri di ogni genere, i disordini, l'eresia e fosse un elemento insostituibile per la promozione e la fama di un luogo di culto, moltiplicò le inventiones di corpi attribuiti ai santi, nella maggior parte dei casi, sulla base di indicazioni derivanti da sogni, visioni o altri tipi di segni (ad esempio il profumo) miracolistici. Talora l'ansia di possedere il corpo di un santo diede luogo a contese ed a furti veri e propri.
Tra il VI e il VII sec., soprattutto in Gallia e nell'Italia settentrionale, si sviluppò il culto delle reliquie di contatto: gli abiti del santo, gli strumenti che ha usato, ma anche la pol vere grattata dal suo sepolcro, perfino l'olio della lampada che lo rischiara.
La conquista della Terrasanta (1204) aumentò ulteriormente la massa delle reliquie, facilitandone gli abusi: la compravendita di reliquie, la loro falsificazione, l'esistenza di reliquie multiple (ad esempio le diverse teste di Giovanni Battista, di cui una si troverebbe a Roma, un'altra in Francia, un'altra ancora a Damasco, meta dio pellegrinaggi musulmani). Abusi che, periodicamente, hanno suscitato critiche al culto delle reliquie, considerato dai suoi detrattori, interni (la prima documentata è quella del prete di Tolosa, Vigilantio, anno 403) ed esterni, come espressione di idolatria pagana e di sciocca superstizione.
Il testo, cui sono stati aggiunti i neretti e le interruzioni di paragrafo, è tratto dal Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino, 1993.


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LE BUGIE NELLA BIBBIA


Ghirlandaio- Saint JeromeMario Liverani, che insegna Storia del Vicino Oriente Antico all’ università La Sapienza di Roma, è autore del volume "Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele", sostiene che non possono essere considerati storici i racconti più celebri del Vecchio Testamento, come le vicende di Abramo e dei Patriarchi, la schiavitù in Egitto, l’ Esodo e la peregrinazione nel deserto, la conquista della terra promessa, la magnificenza del regno di Salomone.
“Gli ebrei, come del resto tanti altri popoli, si sono dati un mito delle origini nel momento in cui ne avevano più bisogno”, dice Liverani. “Oggi, con evidente anacronismo, ma con qualche ragione, si potrebbero accostare quelle pagine del Vecchio Testamento a un documento di propaganda politica”.
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I PAPI: LA VIA CRIMINALE A DIO. IL SACCO DI ROMA E IL CONCILIO DI TRENTO


Leone XGregorovius commenta nel modo seguente l' uscita di scena di Leone X:
Il clamore degli adulatori e dei cortigiani — né mai altro papa ne ebbe tanti e tanto facondi — non può più trarre in inganno l' opinione dei posteri, che devono dissociarsi da queste esaltazioni di Leone X e rifiutarsi di collocarlo tra i grandi uomini della storia. Egli ereditò il papato così come lo avevano forgiato e tramandato i Borgìa e i Della Rovere e vi aggiunse quella perfetta arte diplomatica medicea nella quale era maestro. Questo sistema dell' intrigo larvato, dell' ipocrisia e della ambiguità politica, lo lasciò poi a sua volta ai suoi successori facendone quasi un patrimonio dogmatico della Santa Sede nel suo aspetto temporale. Il gesuitismo entrò allora per la prima volta
 a far parte della politica ecclesiastica. Leone tenne saldamente il papato al centro dei rapporti europei e gli conferì senza dubbio la supremazia in Italia. Accrebbe inoltre il prestigio spirituale della Santa Sede, alla quale rese soggetta anche la Francia; ma in Germania lo stesso tentativo non gli riuscì.
 Si dice solitamente che egli coltivò idee grandiose, quali la cacciata degli stranieri dall' Italia, l' unificazione di questo paese sotto la signoria pontificia, la restaurazione della pace e dell'equilibrio in Europa e la guerra contro l'Oriente; tuttavia, nelle sue azioni, queste idee appaiono così pallide e frammentarie, oppure così male architettate, che attribuirgli il merito di tanto grandi disegni appare veramente artificioso.
Quanto alla Chiesa, Leone X la lasciò nell' abisso della rovina. Immerso in piani di splendore e di magnificenza, in abbandoni estetici, egli non mostrò neppure la più superficiale comprensione per la crisi della Chiesa. Inebriato dalla sua magnificenza, godette in lei tutta la grandezza e la pienezza della potenza spirituale come una felicità abbracciante il mondo: il papato era immerso nel suo godimento come l'impero di Roma. Egli immerse questo papato nella pompa del paganesimo neolatino. Non comprese il suo dovere cristiano, perché, come tutti i papi della Rinascenza, egli confuse la grandezza dei papato con quella della Chiesa, e questa falsificazione romana dell'ideale cristiano, il più lungo e il più terribile degli errori dei papi, generò la Riforma tedesca.
        Alla sua morte, con la Chiesa ridotta in così male che Baldassar Castiglione ebbe a dire che a descriverla come era nessuno vi avrebbe creduto, ci si rese conto che le finanze erano disastrose e che Leone si era venduto tutto, le tiare, le mitre, gli arazzi, i gioielli, i preziosi e financo le posate d'argento. Situazione drammatica che rendeva l'elezione del nuovo pontefice molto complessa per il ruolo impegnativo del nuovo Papa soprattutto per far fronte a sopravvenuti impegni di politica estera.
        La situazione europea vedeva tre grandi potenze in contrasto tra loro che è utile situare nelle linee generali.
        Da una parte vi era Enrico VIII d'Inghilterra, già incontrato nell'articolo precedente, che  premeva perché fosse eletto il suo candidato, il cardinale inglese Wolsey che era stato il principale consigliere di Enrico a partire dal 1511. Enrico VIII era salito al trono d'Inghilterra nel 1509 (aveva 18 anni) e nove settimane dopo aveva contratto matrimonio con Caterina d'Aragona, quinta figlia dei Re Cattolici di Spagna (Ferdinando II d'Aragona e Isabella di Castiglia) e vedova del fratello Arturo che aveva sposato nel 1501 e che era subito morto prima che si consumasse il matrimonio, seguendo la volontà del padre, Enrico VII, che voleva creare una forte alleanza tra Inghilterra e Spagna. La celebrazione di tale matrimonio, la cui promessa risaliva alla morte di Arturo, aveva fatto esprimere dei dubbi sulla sua validità da parte del Papa Giulio II e dell'arcivescovo di Canterbury. Solo le insistenze di Isabella con il Papa, che si protrassero fino alla sua morte nel 1504, avevano prodotto una Bolla in cui il matrimonio veniva ammesso come legittimo con una dispensa. Ancora nel 1511 Enrico, con l'Imperatore Massimiliano del Sacro Romano Impero, con la Repubblica di Venezia e con il Re Ferdinando di Spagna aveva aderito alla Lega Santa fortemente voluta dal Papa Giulio II contro le mire egemoniche della Francia di Luigi XII. Alla morte di Giulio II (1513) Venezia abbandonò la Lega, alleandosi con i Francesi. Stessa cosa fece anche l'Inghilterra nel 1514 e queste defezioni portarono la Lega alla sconfitta di Marignano del 1515. Con l'avvento del nuovo Papa Leone X nel 1513 (prima dell'abbandono dell'Inghilterra della Lega Santa), Enrico aveva mostrato profonda ripulsa per le azioni scissioniste di Lutero tanto che il Papa gli aveva dato il titolo di Defensor Fidei. Intanto Enrico aveva il grave problema dell'erede al trono che doveva essere maschio perché gli inglesi ritenevano disastroso avere una don a al potere. Con Caterina i figli si succedevano (fino a sei) ma o morivano prematuramente o erano femmine. Alla fine sopravvisse una sola femmina, Maria Tudor, e questa situazione creò moltissimi problemi. Intanto era morto Ferdinando d'Aragona (1516) al quale successe suo nipote Carlo V d'Asburgo. Cerchiamo di mettere ordine. Tra i figli dei Re Cattolici vi era, oltre Caterina d'Aragona, anche Giovanna d'Aragona detta la Pazza(1). Costei, all'età di 17 anni (1496), aveva sposato l'arciduca Filippo d'Asburgo detto il Bello, figlio di Massimiliano d'Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero. Carlo V d'Asburgo fu il primo erede maschio della coppia con pieno diritto di successione. Nel 1506 scomparve anche Filippo, padre di Carlo, per cui, quest'ultimo, all'età di soli sei anni, si trovò ad essere il potenziale erede non solo dei beni di Castiglia comprendenti anche le Americhe, ma anche di quelli d'Austria, del Sacro Romano Impero e di Borgogna; questi ultimi in quanto il nonno Massimiliano d'Asburgo aveva sposato Maria Bianca di Borgogna, ultima erede dei Duchi di Borgogna. Si profilava un sovrano che aveva davanti un potere ed un territorio enormi tanto che sul suo impero non tramontava mai il Sole, e ciò si realizzò nel 1516, quando aveva solo 16 anni, con la morte del nonno Ferdinando II d'Aragona (in realtà era la madre Giovanna l'erede del trono di Spagna ma a seguito dei suoi problemi mentali(1) la gestione del potere fu di Carlo che sostituì la madre fino alla sua morte nel 1555). Da notare che uno tra gli istitutori di Carlo V (in seguito anche consigliere insieme ad Erasmo da Rotterdam) era Adriaan Florensz di Utrecht, che sarebbe poi diventato Papa Adriano VI. E Carlo V aveva anche Caterina d'Aragona, sposa di Enrico VIII, come zia. Queste parentele con le corna annesse rappresentarono la politica europea per secoli con le continue benedizioni della Chiesa che di potenti se ne intendeva mentre manteneva la popolazione nella più infima ignoranza.
        D'altra parte vi era Francesco I Re di Francia che, scomparso Luigi XII nel 1515, ne aveva ereditata la corona. Il nuovo Re aveva ereditato dal predecessore anche le mire espansioniste sull'Europa e, essendo sposato con una Visconti, credette di avere diritti su Milano tanto che, appena eletto al trono, iniziò (alleato con Venezia) con una discesa in Italia dove scorrazzò per molto tempo provocando lutti e distruzioni fino ad impadronirsi del Ducato di Milano (1515). Ma Francesco puntava molto più in alto, al posto di Imperatore del Sacro Romano Impero, che si era liberato con la morte di Massimiliano I d'Asburgo (il nonno di Carlo V). I Principi Elettori si riunirono a Francoforte nel giugno del 1519 e, con l'imponente sostegno dei banchieri Fugger (quelli che gestivano le indulgenze di Leone X) che corruppero molti principi, elessero Carlo V (egli andava bene ai principi perché, dovendo operare anche in Spagna, sarebbe stato lontano dall'Europa centrale lasciando loro molta maggiore possibilità di manovre). E così Carlo V fu incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero nel 1520 nella Cattedrale di Aquisgrana. Lo smacco fu duro da digerire per Francesco che tentò subito di ampliare le sue alleanze con l'Inghilterra di Enrico VIII anche tramite gli uffici del cardinale Wosley che era diventato primo ministro del Re d'Inghilterra. Francesco mirava ad un matrimonio di suo figlio Francesco di Valois, erede al trono, con la figlia di Enrico VIII e Caterina d'Aragona, Maria Tudor. I piani non andarono a buon fine. Nessun matrimonio e nessuna alleanza. Anzi, Enrico VIII si alleò con Carlo V. Francesco si sentì sempre più accerchiato da un sovrano, Carlo V, che ormai dominava l'Europa. Ciò dette inizio ad una serie di scontri armati che si conclusero con la dura sconfitta francese nella Battaglia di Pavia nel 1525, battaglia nella quale lo stesso Francesco fu fatto prigioniero, condotto a Madrid e liberato un anno dopo dietro il pagamento di un forte riscatto e dietro la firma di un impegno (Trattato di Madrid) a rinunciare a determinati possedimenti. In garanzia di quest'ultimo impegno lasciò due figli a Madrid in ostaggio. Ma, una volta libero, Francesco denunciò tali accordi facendosi forte di un'altra alleanza, la Lega di Cognac (alla quale avevano aderito la monarchia inglese, la monarchia francese, Venezia, Genova, Firenze e Milano contro il potenziale pericolo di Carlo V), promossa da un altro Papa (1526), in questo caso Clemente VII, che era nel frattempo andato in rotta di collisione con Carlo V. Vi assicuro che è estremamente difficile seguire e riassumere queste vicende non marginali della storia di Europa.
        Serviva avere questo quadro di riferimento che situa le due fazioni nel conclave del 1522 che doveva eleggere il successore di Leone X. Nel parlare dei due principali contendenti di quel conclave abbiamo anche parlato di Carlo V fino alla vigilia dello scontro con la Chiesa che avverrà nel 1527.
        Quindi nel conclave vi erano almeno tre fazioni che si contendevano il Papa. Le due correnti prevalenti erano quelle che facevano capo a Carlo V e a Francesco I. Vi era poi Edoardo VIII. Quest'ultimo, come già detto, puntava sul suo primo ministro, il cardinale Wolsey. Carlo V aveva come preferito il cardinale Giulio de' Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico (perché figlio del fratello Giuliano) e quindi cugino del papa Leone X. Sembrava questa la strada che sarebbe stata seguita dal conclave ma Francesco I inviò una lettera a tutti i cardinali del conclave per avvertirli che, se avessero votato per Giulio de' Medici, egli avrebbe provocato uno scisma nella Chiesa. La situazione sembrò paralizzarsi finché non fu risolta dallo stesso Medici che si tirò indietro proponendo l'elezione di un cardinale non conosciuto al conclave e neppure presente, Adriaan Florensz di Utrecht. La mediazione fu accettata perché quasi nessuno era a conoscenza del fatto che questo candidato era stato istitutore di Carlo V e ne era attualmente consigliere. Insomma con l'intervento del Medici aveva vinto ancora Carlo V. Ma l'incertezza restava grande in una situazione in cui, per la prima volta che si sappia, chiunque poteva aspirare ad essere pontefice se l'ambasciatore di Venezia aveva contato ben 18 candidati su 39 cardinali. Il cardinale Adriaan Florensz fu eletto ed assunse il nome di Papa Adriano VI (1522-1523). Il nuovo Papa era persona colta ed integra tanto che, oltre a Francesco I e Enrico VIII, anche lo stesso Carlo V tentò di accattivarselo con invito alla sua corte.  Adriano non volle saper nulla essendo anche preoccupato per il ruolo che avrebbe assunto in una Chiesa allo sfacelo in uno Stato Pontificio in lotte perenni tra vari potentati e pieno di corruzione ad ogni livello ma anche perché i suoi compiti avrebbero previsto: riportare la pace in Italia; mettere d'accordo le grandi potenze;  risolvere il problema della Crociata contro i Turchi (che avevano già occupato Belgrado ed assediavano Rodi); estirpare l'eresia luterana che si diffondeva rapidamente in Germania ed in Svizzera; riformare la Chiesa per non portarla all'autodistruzione. Dalla Spagna dove si trovava Adriano arrivò a Roma in agosto, sette mesi dopo l'elezione ed entrò a Roma da Civitavecchia, incurante della peste che infieriva colpendo ancora la città. Appena giunto seppe che si stava organizzando la costruzione di un arco trionfale in suo onore. Rifiutò l'onore perché l'onere risultava molto elevato. Ciò gli restituì il favore del popolo che invece aveva protestato e rumoreggiato (anche con lancio di sassi sul Ponte di Castel Sant'Angelo ai cardinali che uscivano dal conclave) al sapere che era stato eletto uno straniero. La gioia però durò poco perché Adriano impose una vita morigerata a tutti, a cominciare dal taglio delle spese folli della Curia per arrivare ad impedire elargizioni di denaro a fini clientelari di molti cardinali (abolì molte rendite derivanti da privilegi ecclesiastici venduti e pagati a caro prezzo che ora creavano aspettative di lauti guadagni, tanto che alcuni, sentendosi rovinati, pensarono di attentare alla vita del Papa. Qualcun altro scrisse: In verità Roma non è più Roma. Usciti da una peste siamo entrati in una maggiore. Questo pontefice non conosce nessuno, non si vedono Grazie). Per Adriano la vita di corte doveva diventare consona  ad un ambiente ecclesiastico e quindi decise di togliersi di torno tutti i portaborse, i parassiti e postulanti, oltreché le donne, le cortigiane, i buffoni ed i poeti. Ma il clima di Roma e più che mai i costumi della corte papale, la sua moralità inesistente, fiaccarono i buoni propositi di Adriano. Non aveva persone di cui fidarsi e da solo non riusciva a fare nulla in un ambiente che, privato di benefici secolari, delle sue cortigiane, dei suoi fasti, dei suoi sodomiti, era diventato inesistente e quindi nemico acerrimo. Tutti qui personaggi che si aggiravano nella corte del papa e che erano ecclesiastici a qualsiasi titolo, avevano in massima parte scelto quella strada per quelle note uscite di benessere, lussi, vizi ed impunità (come del resto accade oggi in cui non vi è mondo migliore per un pedofilo entrare in un seminario e proseguire con la cura dei bambini in asili e parrocchie). Adriano capì che massima parte del potere papale derivava proprio da tutta quella congerie di privilegi, di favori, di indulgenze, di simonia, di corruzione, di sodomia, di peccato nel senso più lato del termine (ed ancora oggi in Italia abbiamo ereditato tutto questo, che non riusciamo a toglierci di dosso, da secoli di papato criminale). I consiglieri curiali, che erano stati di leone X, spiegavano al pontefice tutto questo che iniziò ad essere vittima di dubbi su dubbi. Mentre la corte dei cardinali lo disprezzava ed ironizzava sulla sua pedanteria. Ma la cosa li toccava marginalmente perché, lor signori, continuavano imperterriti a spassarsela con prostitute, sodomiti, banchetti (anche di 75 portate con ognuna di esse costituita da tre pietanze diverse, il tutto in bellissimi argenti ed in gran quantità, mentre provetti musici allietavano degustazione e digestione), sollazzi, battute di caccia (con preziosi cavalli andalusi), gioco (con vincite e perdite di intere fortune ed il passaggio di intere cittadine da un cardinale ad un altro). Sempre per maggior gloria di Gesù, con Adriano che sembrava lo scemo della comitiva, per di più insultato e disapprovato in ogni sua piccola scelta intenzionalmente moralizzatrice ed anche politica. Quando per la Crociata contro i Turchi non volle ricorrere ad indulgenze ma propose di aumentare di poco le tasse, vi fu una specie di ribellione. In questo clima anche la sua azione tesa a fermare la Riforma in terra tedesca non ebbe la forza necessaria. A ciò si aggiunga che nel marzo del 1523 venne scoperta una corrispondenza del cardinale Soderini nella quale risultava il tentativo di Francesco I di impadronirsi del Regno di Napoli. Soderini fu arrestato e Francesco I ruppe le relazioni con la Chiesa. Adriano reagì con l'adesione ad una lega antifrancese costituita con Carlo V, Enrico VIII e Venezia. A ciò seguiva l'invasione dell'Italia settentrionale da parte di Francesco I. Proprio quando Adriano moriva improvvisamente nella felicità, neppure repressa, della Curia romana con cortigiane, prostitute e buffoni.
        Il terreno era stato preparato all'elezione di qualcuno che avesse ripristinato i costumi del passato. Il Papato non avrebbe potuto sopravvivere con l'andare avanti della moralizzazione di Adriano. Non importavano le beghe con i Turchi o con chiunque altro. La prima osa da difendere era il dispiegarsi completo di ogni vizio e corruzione senza censure e benpensanti.
        Il conclave che seguì fu molto combattuto tra Giulio de' Medici sempre sostenuto da Carlo V, ancora da Francesco I che sosteneva il cardinale Alessandro Farnese e tra i voti disponibili al miglior offerente controllati da Pompeo Colonna. Dopo la solita simonia fu eletto Giulio de' Medici che scelse il nome di Papa Clemente VII (1523-1534), un'altra tragedia di crimine e corruzione.
        L'inizio sembrò eccellente con la proclamazione della pace universale tra Francia, Spagna ed Inghilterra. Ma fu un fallimento completo con Francesco I che invase l'Italia e con il Papa che si convinse (1525) che era quello il migliore alleato (insieme a Venezia), lasciando da parte il sodalizio, che lo aveva portato al trono di Pietro, con l'Imperatore Carlo V. La Chiesa ebbe dei vantaggi immediati come la cessione da parte francese delle città di Parma e Piacenza dovendo cedere il passo all'esercito di Francesco I verso la conquista di Napoli. Il tutto finì con varie giravolte papali: come già accennato Francesco I fu sconfitto a Pavia e fatto prigioniero e Clemente si sentì perso anche se le risorse di un Papa sono quasi infinite. Egli, mentre celebrava come se nulla fosse il Giubileo del 1525 con ancora irrisolto il problema delle indulgenze, cambiò alleanze addirittura schierandosi con il vicerè di Napoli al fine di tutelare lo Stato Pontificio e la signoria dei Medici a Firenze, ma ammettendo che gli spagnoli potessero puntare su Milano. Gli eventi portarono alla citata Lega di Cognac contro Carlo V nella quale il Papa si trovò alleato a Francesco I e Venezia. Da tutto ciò venne fuori che Carlo V non riuscì più a fidarsi di un personaggio come Clemente, vago e mutevole soprattutto in un momento in cui egli doveva tenere a bada l'avanzata del comandante turco Solimano e non poteva distrarre truppe. Tentò comunque un riavvicinamento nel giugno del 1526 che nella sua incapacità Clemente non seppe cogliere rispondendo a Carlo in modo che risultò offensivo. Carlo rispose in modo molto duro screditando completamente la natura pastorale di Clemente e minacciando un Concilio ecumenico che discutesse addirittura le ragioni di Lutero. Carlo scrisse anche ai cardinali dicendo loro che avrebbero dovuto bandire un Concilio perché in caso contrario non si sarebbe più potuto frenare il movimento luterano con il rischio che la Germania si sarebbe staccata dalla Chiesa di Roma. Si deve osservare con Gregorovius quanto fosse avventata e stupida la politica papale se commisurata con gli interessi della Chiesa. L'alleanza con la Francia, di fatto, aveva indotto Carlo V ad allearsi con i luterani che, contrariamente alla Chiesa cattolica, lo riconoscevano come Imperatore
        In seno alla Curia vi fu il tentativo del Cardinale Pompeo Colonna, con i metodi soliti dei Colonna (violenze e saccheggi), di riportare il papa all'alleanza con Carlo V. Clemente VII, assediato a Roma dalle soldataglie dei Colonna fu costretto a chiedere aiuto all'Imperatore con la promessa di cedere in cambio la propria alleanza ai danni del Re di Francia, rompendo la Lega di Cogna. Pompeo Colonna si ritirò allora verso Napoli. Clemente VII, senza più la pressione di Colonna non mantenne il patto e chiamò in suo aiuto l'unica forza che poteva difenderlo, ancora il Re di Francia. Non vi fu nulla da fare ed alla fine di questo tentativo Clemente si trovò ad essere un ferreo alleato della Francia contro l'Impero di Carlo V. A questo punto Carlo V ordinò alle sue truppe di marciare su Roma. Il 12 novembre del 1526 partì da Trento un contingente di Lanzichenecchi comandati da un generale francese in rotta con Francesco I, Carlo III di Borbone-Montpensier e le truppe sul campo di battaglia avevano come diretto comandante Georg von Frundsberg (qui vi sono giustificazioni storiche che raccontano di quest'ultimo che, ammalatosi, dovette tornare in Germania prima dell'attacco a Roma). Ad essi si unirono gli spagnoli provenienti da Milano e molti italiani provenienti da vari statarelli dominati dalla Chiesa in modo da formare un contingente di 35 mila uomini. La città di Roma che era in totale decadenza (aveva circa 50 mila abitanti contro il milione di era imperiale) e che aveva una difesa di circa 5000 uomini tra cui un contingente svizzero, con il Papa nascostosi nella fortezza di Castel Sant'Angelo, fu attaccata (6 maggio) ed espugnata il 6 giugno del 1527. Fino a febbraio del 1528 fu messa al sacco da parte dell'esercito imperiale e subì infiniti danni al suo patrimonio artistico. In una relazione dell’epoca si legge: gli imperiali hanno preso le teste di San Giovanni, di San Pietro e di San Paolo; hanno rubato l’involucro d’oro e d’argento e hanno buttato le teste nelle vie per giocare a palla; di tutte la reliquie di santi che hanno trovato, hanno fatto oggetto di divertimento. Carovane di carri cariche di ogni genere di ricchezze lasciavano la città. Erano i beni della nobiltà e del clero. Gli occupanti quando si ritirarono lo fecero perché colpiti e decimati da varie malattie che erano diventate endemiche nella città per la mancanza di ogni cura igienica da 1500 anni, da quando era dominio della Chiesa. Il raddoppio della popolazione per circa un anno, quello del sacco, a fronte delle stesse fogne fatiscenti e della malaria regnante, ridusse gli abitanti di Roma a circa 20 mila. Nell'attacco il comandante francese fu ferito a morte da Benvenuto Cellini che difendeva la città. Il Papa si salvò chiudendosi in Castel Sant'Angelo dove riuscì ad uscire dopo patteggiamenti e la promessa del pagamento di un riscatto che lo portò per sette mesi in una prigione nell'attuale quartiere Prati. Da questa con la compiacenza di alcuni ufficiali, riuscì a fuggire travestito da povero ortolano, prima ad Orvieto quindi a Viterbo. Così fu senza che si pagasse quel riscatto ma dovendo pagare profumatamente gli ufficiali che lo fecero evadere e per corrompere e pagare qua e là. Intanto le truppe tedesche continuavano a dilagare su Roma distruggendo tutto, saccheggiando la città a fondo, uccidendo, violentando e stuprando con la distruzione della Roma rinascimentale e di molte opere d'arte (le ragioni che indussero i mercenari germanici ad abbandonarsi ad un saccheggio così efferato e per così lungo tempo risiedono, soprattutto, nell'acceso odio che la maggior parte di essi, luterani, nutrivano per la Chiesa che consideravano come la Babilonia corruttrice guidata da un Papa che era l'Anticristo). Scriveva Guicciardini nella sua Storia d'Italia:
«Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de' santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de' loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de' soldati (che furno le cose più vili) tolseno poi i villani de' Colonnesi, che vennero dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dì seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il sacco a più di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore».
Ed il Gregorovius fornisce maggiori dettagli che io riporto in minima parte, quella relativa ai primi giorni del Sacco:
[...] lo spettacolo che Roma offriva di sé era più orribile di quanto si possa immaginare: le strade ingombre di rovine, di cadaveri e di moribondi; case e chiese divorate dal fuoco dalle quali uscivano grida e lamenti; un orribile trambusto di gente che rubava e che fuggiva; lanzichenecchi ubriachi, carichi di bottino o che si trascinava dietro prigionieri. Diritto di guerra a quel tempo significava licenza di saccheggiare una città conquistata ma anche facoltà di considerare tutta la popolazione vinta niente altro che carne da macello. Nessun lanzichenecco avrebbe capito che era disumano trattare dei cittadini inermi come degli schiavi di guerra. Chi aveva cara la vita doveva riscattarla. Con la più rozza ingenuità il cavaliere Schertlin scriveva nelle sue Memorie: «Il 6 maggio prendemmo d'assalto Roma; gli uccisi furono più di seimila, tutta la città fu saccheggiata, nelle chiese e sopra terra prendemmo tutto ciò che trovammo e una buona parte della città fu incendiata».
Niente e nessuno fu risparmiato. Le case degli spagnoli e dei tedeschi furono saccheggiate come quelle dei romani. In molti palazzi che appartenevano a partigiani dell'imperatore si erano rifugiate persone di ogni ceto, a centinaia; gli spagnoli vi irruppero depredando e incendiando. Così accadde la prima notte sia nella casa del marchese di Mantova che in quella dell'ambasciatore portoghese, dove i lanzichenecchi avrebbero fatto un bottino di 500.000 ducati. Alcune centinaia di persone trovarono scampo nel grande palazzo del cardinal Andrea della Valle che evitò il saccheggio consegnando a Fabrizio Maramaldo parecchie migliaia di ducati. Come sempre accadeva in casi del genere, con un atto notarile le persone ospitate si impegnavano a restituire al proprietario del palazzo somme di denaro adeguate alla taglia di ciascuno.
Più sventurata fu la fine degli edifici che osarono opporre resistenza. Furono fatti saltare in aria con mine, e una torre del Campidoglio andò così distrutta. A Campo-marzio il palazzo Lomellina resisteva: i lanzichenecchi lo presero d'assalto, e a colpi di fucile uccisero la padrona di casa che tentava di fuggire calandosi nel cortile con una corda. Ricchissimo bottino fornirono le chiese e i conventi, dove gli imperiali rubarono anche gli oggetti preziosi che i cittadini vi avevano custodito. Il saccheggio fu generale: non furono risparmiate né S. Maria dell'Anima, chiesa nazionale dei tedeschi, né la chiesa nazionale degli spagnoli, S. Giacomo in piazza Navona dove giaceva la salma del Borbone. S. Maria del Popolo fu spogliata in un baleno di tutto quanto vi si trovava e i frati furono tutti trucidati. Le monache dei conventi di S. Maria in Campomarzio, di S. Silvestro e di Montecitorio furono vittime di indescrivibili atrocità. Quando i conventi in cui irrompevano si rivelavano poveri, i soldati sfogavano la loro delusione abbandonandosi ad atti di ferocia inaudita.
E' necessario aver presente la grande quantità di oggetti preziosi custoditi nelle sacrestie di Roma per immaginare quale immenso bottino fruisse nelle mani degli imperiali. Tutto fu rubato, distrutto, profanato. Lo stesso destino subirono le teste degli apostoli, quella di Andrea a S. Pietro e quella di Giovanni a S. Silvestro. Un soldato tedesco fissò all'estremità della sua picca la punta della cosiddetta lancia santa. Il sudario di S. Veronica passò di mano in mano per tutte le taverne di Roma. La grande croce di Costantino, strappata da S. Pietro, fu trascinata per il Borgo e andò perduta. A ricordo di questa impresa, i tedeschi conservarono parecchie reliquie, ma il bottino più ridicolo fu la corda, piuttosto spessa e lunga dodici piedi, con la quale si sarebbe impiccato Giuda. Lo Schertlin la rubò a S. Pietro e la portò con sé in patria. Anche la cappella Sancta Sanctorum, la più venerata di Roma, fu saccheggiata.
Neppure al tempo dei Saraceni S. Pietro era stata devastata tanto ferocemente. Gli spagnoli vollero frugare anche nei sepolcri, persino in quello di Pietro, come un tempo avevano fatto i Mori. Fu spogliato il cadavere di Giulio II, che era sepolto in un sarcofago, e la salma di Sisto IV non fu profanata solo grazie alla pesantezza della sua tomba di bronzo. I soldati giocarono a dadi sugli altari sbevazzando nei sacri calici in compagnia di laide prostitute. Nelle navate e nelle cappelle, così come nel palazzo Vaticano, furono approntate stalle per i cavalli ma al posto della paglia furono usate le bolle e i manoscritti che un tempo i papi umanisti avevano raccolto con tanta passione. Quanto alla biblioteca Vaticana, solo a fatica l'Orange poté salvarla dalla distruzione, fissandovi la propria dimora. Nelle strade tuttavia si vedevano sparsi brandelli di scritti e di registri pontifici. Molti archivi di conventi e di palazzi, infatti, andarono distrutti e la storia del Medioevo di Roma ne subì perdite irreparabili. Quel saccheggio spiega anche la penuria di documenti dell'archivio Capitolino.
Anche molte opere d'arte andarono perdute. I tappeti fiamminghi di Raffaello furono rubati e venduti, mentre le magnifiche pitture su vetro di Guglielmo di Marcillat furono fatte a pezzi. Più tardi un insensato odio nazionale ha attribuito ai lanzichenecchi distruzioni che essi non compirono mai. Non è affatto vero, ad esempio, che con il fuoco delle loro fiaccole essi annerissero gli affreschi di Raffaello, ed è assolutamente infondata l'odiosa accusa che i tedeschi abbiano premeditatamente fatto a pezzi le statue più belle, dato che i più grandi capolavori dell'antichità e del Rinascimento sono giunti intatti sino a noi. Dopo i primi tre giorni il principe di Orange ordinò che il saccheggio fosse sospeso e che le truppe si ritirassero nel Borgo e a Trastevere. Nessuno gli obbedì. I soldati continuarono a far prigionieri e a saccheggiare tutte le case, comprese le modestissime abitazioni dei portatori di acqua. Vennero in città, dai fondi dei Colonna, anche i contadini, i quali seguirono le orme degli assalitori spigolando dove essi avevano mietuto. Avidamente accorse lo stesso Pierluigi Farnese, vero epigono di Cesare Borgia e abominevole bastardo del cardinale che, divenuto successivamente papa, lo avrebbe reso potente. Per puro e semplice desiderio di rubare egli si era unito al partito imperiale e si allontanò da Roma per nascondere in un castello del Patrimonio appartenente alla propria famiglia un bottino valutato ventìcinquemila ducati. Per strada, la carovana del Farnese fu però assalita e derubata dal popolo del Gallese.
Per otto giorno i palazzi dei cardinali Valle, Cesarini, Enkevoirt e Siena furono risparmiati sia perché avevano ospitato i capitani spagnoli sia perché i loro proprietari avevano pagato più di trentacinque mila ducati. Senonché, quando i lanzichenecchi videro che gli spagnoli si impadronivano delle case migliori montarono su tutte le furie. Assalirono per quattro ore il palazzo di Siena, lo saccheggiarono, presero tutto quello che vi si trovava e trascinarono nel Borgo, prigioniero, il cardinal Piccolomini. Allora anche gli altri cardinali si rifugiarono nel palazzo di Pompeo, aprendo in tal modo ai lanzichenecchi la via del saccheggio delle loro case. Il bottino di casa Valle dovette ammontare a duecentomila ducati; non inferiore fu quello fatto a palazzo Cesarini, mentre da casa Enkevoirt furono prelevare ricchezze per centocinquantamila ducati. Si aggiunsero poi, le taglie imposte ai prigionieri. Isabella Gonzaga uscì fortunatamente incolume da quelle atrocità. Il 5 novembre aveva comprato dal papa il cappello cardinalizio per suo figlio Ercole e Clemente glielo mandò a palazzo Colonna, dove ella abitava dopo aver lasciato la dimora di palazzo Urbino, vicino a S. Maria in via Lata. Messa in guardia da tempo dal secondogenito don Ferrante, generale della cavalleria nell'esercito del Borbone, la marchesa aveva provvisto questo palazzo di vettovaglie e di armi, lo aveva fatto rafforzare di mura e vi aveva ospitato tremila fuggiaschi, tra i quali Domenico Massimo. Nella sua casa si salvarono anche quattro ambasciatori italiani, Francesco Gonzaga, i rappresentanti dì Ferrara e di Urbino e il rappresentante di Venezia, Domenico Venier il quale non aveva fatto in tempo a raggiungere Castel S. Angelo. Fin da quella orribile prima notte di saccheggio vi si erano recati il conte Alessandro di Nuvolara, la cui bellissima sorella Camilla si trovava già presso la marchesa, e un parente del duca di Sessa, don Alonso de Cordoba, cui il Borbone aveva raccomandato di provvedere alla difesa della principessa. Questi capitani, fatti salire nel palazzo mediante una fune, chiesero cinquantamila fiorini d'oro: diecimila dovevano essere versati dai fuggiaschi veneziani e diecimila da don Ferrante. Questi accorse verso le due di notte lasciando la guardia di Castel S. Angelo che gli era stata affidata e il Nuvolara e don Alonso si rifiutarono di farlo entrare finché egli non promise che nessuno, oltre alla propria madre, sarebbe stato esentato dal riscatto. Più tardi, scrivendo al fratello che si trovava a Mantova, don Ferrante diceva quanto fosse difficile assicurare protezione alla marchesa, poiché nel campo correva voce che in quel palazzo si trovassero due milioni e che, a causa della generosità della signora, vi avessero trovato rifugio più di milleduecento gentildonne e mille uomini. Tutti gli altri prigionieri dovettero riscattarsi con sessantamila ducati. Il Venier, che si era consegnato al Nuvolara, ne diede cinquemila e diecimila furono versati da Marcantonio Giustiniani. Come convenuto, un distaccamento di spagnoli fu messo a guardia del palazzo, ma i lanzichenecchi minacciarono di assalirlo e l'Orange e il conte di Lodrone durarono fatica a trattenerli. Allora spaventata, il 13 maggio Isabella lasciava il palazzo insieme con la propria corte e con gli ambasciatori italiani. Mediante una barca, suo figlio la accompagnò a Ostia e di lì' i fuggiaschi, tra i quali era anche il Venier travestito da facchino, proseguirono a cavallo per Civitavecchia.
Ad Ostia il Venier trovò altri fuggitivi, il Caraffa e il Thiene con i teatini. Dopo molti maltrattamenti subiti, prima nel loro convento al Pincio poi come prigionieri, anch'essi erano fuggiti per il Tevere. L'ambasciatore li convinse a imbarcarsi su una nave della repubblica veneta e così i teatini trovarono asilo a Venezia. A Civitavecchia fuggirono anche Domenico de Cupis, cardinale di Trani, e i figli di donna Felice Orsini che avevano dovuto pagare un forte riscatto nella casa dell'Enkevoirt. Essi percorsero molte miglia a piedi per raggiungere il porto che le navi del Doria difendevano da ogni pericolo. Vi si trovava anche il cardinale Scaramuccia Trivulzio che poco prima della catastrofe aveva lasciato Roma alla volta di Verona. Era presente anche il Machiavelli inviato ad Andrea Doria dal Guicciardini.
Lo stesso cardinal Gaetano, che ad Augusta aveva trattato Luterò con tanta alterigia, fu trascinato per Roma dai lanzichenecchi spinto a percosse e a calci e portato in giro con berretto da facchino in testa. Così gli imperiali lo trascinarono da banchieri e amici perché col loro denaro potesse raccogliere la somma necessaria al suo riscatto. Il papa pianse quando seppe dei maltrattamenti subiti dal cardinale e fece pregare i tedeschi affinché «non spegnessero la lampada della Chiesa». Anche l'anziano cardinale Ponzetta di S. Pancrazio, sebbene partigiano dell'imperatore, fu derubato di ventimila ducati che aveva tentato di nascondere e poi fu trascinato per Roma con le mani legate dietro la schiena. Quattro mesi dopo moriva in miseria, nella sua casa rimasta completamente spoglia. Cristoforo Numalio, cardinale francescano, fu strappato dal suo letto, posto su una bara e portato in processione dai lanzichenecchi che, con delle candele accese in mano, gli cantavano grotteschi inni funebri. Giunti all'Aracoeli, i soldati deposero a terra il feretro, pronunciarono un'orazione funebre dopo di che, scoperchiata una tomba, minacciarono il cardinale di seppellirlo là dentro se non avesse pagato la somma richiesta. Il prelato offrì tutti i suoi averi ma i suoi tormentatori, insoddisfatti, lo riportarono nella sua casa per poi trascinarlo nuovamente nelle abitazioni di tutti coloro dai quali poteva sperare di ricevere denaro.
Di fronte alle atrocità commesse dall'esercito di Carlo V, si può dire che i saccheggi di Roma avvenuti ai tempi di Alarico e di Genserico non furono privi di moderazione e di umanità. Vi fu pure il trionfo della religione cristiana in mezzo al caos di Roma saccheggiata dai Goti; mentre nessun episodio del genere introdusse una nota di pietà negli orrori del 1527. Allora, infatti, la città non offrì altro spettacolo che quello di bacchiche comitive di lanzichenecchi i quali, in compagnia di etere seminude, si recavano a cavallo in Vaticano per brindare alla morte o alla prigionia del papa. Luterani, spagnoli e italiani si divertivano a scimmiottare le cerimonie religiose. Si vedevano lanzichenecchi che a dorso di somari imitavano i cardinali mentre in mezzo a loro un soldato travestito faceva la parte del papa. Così camuffati si spinsero più volte davanti a Castel S. Angelo dove gridarono che, d'ora in poi, avrebbero scelto come papi e cardinali solo persone pie, obbedienti all'imperatore, e tali che non intraprendessero più guerre, e dove proclamarono Lutero papa. Alcuni soldati ubriachi bardarono un asino con paramenti sacri e costrinsero un sacerdote a dare la comunione all'animale che avevano fatto inginocchiare. Lo sventurato prete inghiottì uno dopo l'alta tutte le ostie finché i suoi aguzzini non lo tormentarono a morte. Ad altri sacerdoti fu estorta con orribili torture la confessione di delitti veri o presunti.
Le condizioni di Roma nella prima settimana di assedio avrebbe forse impietosito le pietre ma lasciarono del tutto indifferente quell'esercito efferato. Il francese Grolier, che si era salvato nella casa del vescovo spagnolo Cassador, ha espresso in queste parole ciò che udì e vide dal tetto del palazzo : «Dappertutto grida, frastuono d'armi, lamenti di donne e di fanciulli, crepitio di fiamme, fragore di case che crollavano; noi rimanevamo paralizzati dalla paura e tendevamo l'orecchio come se fossimo gli unici risparmiati dal destino per assistere alla rovina della patria». Ora, vestito di sacco e col capo cosparso di cenere come Giobbe, Clemente avrebbe potuto tendere le mani al cielo dall'alto di Castel S. Angelo e chiedere piangendo perché un giudizio così tremendo aveva colpito il papato caduto tanto in basso da idolatrare se stesso. Di lì egli vide le fiamme avvolgere la sua bella villa di monte Mario alla quale il cardinal Pompeo aveva appiccato fuoco per vendicare i propri castelli distrutti. Che cosa erano mai quelle fiamme in confronto alle colonne di fuoco che si alzavano in tutta la città?
Per difendersi dalle artiglierie di Castel S. Angelo, da torre di Nona, davanti a ponte S. Angelo, fino a palazzo Altoviti gli imperiali avevano scavato una trincea dalla quale facevano fuoco incessantemente. In quei giorni il castello era teatro di una confusione indescrivibile: tremila cittadini, il papa e tredici cardinali. Sulla sua sommità sventolava, accanto all'angelo di pace, la rossa bandiera dì guerra, e ogni ora i colpi di cannone che venivano sparati lo avvolgevano di fumo. Novanta svizzeri e quattrocento italiani ne costituivano la guarnigione; il comando dell'artiglieria era stato affidato al romano Antonio S. Croce e sotto di lui serviva come bombardiere Benvenuto Cellini. Mancavano i viveri; la carne di asino era diventata una leccornia per i cardinali e per i vescovi. Gli spagnoli tagliavano i rifornimenti da qualunque parte venissero. A colpi di archibugio uccisero alcuni bambini che dalla fossa del castello facevano salire delle erbe, agli affamati, e un capitano impiccò di propria mano una vecchia che portava un po' di insalata per il papa. [...]
        Tutta l'Europa cristiana si indignò per la barbarie delle distruzioni e lo stesso Carlo V risultò isolato da tutti i sovrani. Fu allora che si giustificò con i soldati restati senza comandante che agirono di loro iniziativa. Il Papa ritornò a Roma solo nell'autunno del 1528 per vedere con i suoi occhi quel flagello che il popolo aveva interpretato come punizione per i peccati indicibili ed esecrabili della Chiesa. Nel 1529 si addivenne alla Pace di Barcellona con la quale si siglava una tregua tra Francesco I e Carlo V, Firenze tornava ai Medici, lo Stato Pontificio riprendeva possesso di varie terre perse nelle azioni lanzichenecche. Naturalmente veniva anche sancita la pace tra l'Impero e la Chiesa anche attraverso uno dei matrimoni risolutori di controversie, quello tra la figlia bastarda di Carlo V, Margherita, ed il figlio bastardo di Ludovico Duca di Urbino, Alessandro de' Medici (che era noto a tutti come il figlio del Papa). E fu proprio ad Alessandro che venne consegnato il governo di Firenze, a quell'Alessandro che immediatamente abrogò la costituzione repubblicana della città (1532). L'accordo prevedeva anche l'incoronazione di Carlo V come sovrano del Sacro Romano Impero, incoronazione che fece Clemente a Bologna il 22 febbraio del 1530 (ultima incoronazione). A questo punto il Papa dovette anche accettare la convocazione di un Concilio che discutesse della Riforma di Lutero (questa era la politica ufficiale, ma il sottobosco degli intrallazzi tentava di evitare l'evento aborrito dal Papa)  anche perché i luterani si organizzavano rapidamente e avevano trovato il loro punto di massima forza nella formazione della Lega di Smalcalda nel 1531. I raffinati preti che consigliavano Clemente trovarono una formula: il Concilio si farà quando tutti gli Stati cristiani saranno in pace. E l'alleato di Clemente VII, il Re di Francia Francesco I, naturalmente non era d'accordo con la pace e, senza di essa, la politica del papa aveva il sopravvento. Intanto, dopo il Sacco e la peste, come altro segno divino, il 7 ottobre del 1530 Roma subì una delle più gravi inondazioni della sua storia. Centinaia di case e ponti furono distrutti dalle acque del Tevere e moltissimi furono i cadaveri che il fiume si portò a mare. Quando le acque si ritirarono le centinaia di cadaveri insepolti originarono una nuova esplosione della peste. Ludovico Muratori scriveva allora che non fece caso a tali avvisi il pontefice, che fece piangere chi voleva, mentre egli si preoccupava di sempre maggiore ingrandimento e lustro i Casa sua.
        E davvero Clemente fu incapace di gestire la politica estera della Chiesa. Non riusciva proprio a capire l'importanza di un Concilio che non avrebbe solo avuto una valenza religiosa ma anche politica con il sostegno a Carlo V che si dibatteva, da cattolico, nella crescita imponente del movimento luterano da una parte e dalle pressioni militari dei Turchi di Solimano dall'altra. Francesco I era con il Papa in questo poiché il Concilio avrebbe favorito l'unità dell'Impero. La cosa straordinaria era che il Papa vedeva con favore sia il movimento luterano che i Turchi come strumenti per indebolire Carlo V. Ma poi un Concilio poteva nascere con alcuni argomenti da trattare e passare poi attraverso tutte le bestialità papali dal nepotismo, alla rovina di Roma, alla perdita di libertà di Firenze. Occorreva però mostrare a Carlo che vi era un qualche impegno per convocare il Concilio e Clemente usò quanto sostenuto già in passato, e cioè che il Concilio si sarebbe fatto quando vi fosse stata la pace tra tutti i Paesi cattolici, per andare di nuovo ad incontrare Francesco I. Visto il fine Carlo non poté protestare. Fu così che Clemente si recò a Marsiglia in Francia dove, secondo i suoi parametri politici, realizzò il suo capolavoro: celebrò di persona il matrimonio di sua nipote Caterina de' Medici con il secondogenito, Enrico, di Francesco I e sua moglie la regina Eleonora che era sorella di Carlo V (il matrimonio di Caterina ed Enrico ci farà discutere fra trentotto anni, quando parleremo della Strage degli Ugonotti nella Notte di San Bartolomeo). Sfarzi, lussi e banchetti che andarono avanti per molti giorni al posto del Concilio. Naturalmente Clemente intrecciò di nuovo e segretamente patti con Francesco, patti che riguardavano il dominio su vari territori in Italia.
        Intanto in Inghilterra, dove Enrico VIII aveva goduto per un certo periodo delle lotte tra Francesco I e Carlo V, perché aveva potuto porsi come ago della bilancia, non si era ancora risolto il problema dell'erede maschio al trono. Vi era solo quella femmina, Maria, che non avrebbe mai garantito la continuità del trono d'Inghilterra. Enrico capì che con Caterina d'Aragona non avrebbe mi potuto avere il desiderato maschio e, a partire dal 1526, iniziò ad avere rapporti con un'amante, Anna Bolena. Ma l'erede non poteva discendere da un more extraconiugale e Edoardo iniziò a pensare al divorzio da Caterina. Indagini riservate su tal possibilità furono fatte dal cardinale Wolsey e dall'Arcivescovo di Canterbury, William Warham. Risultò che quel matrimonio era difficilmente impugnabile sul piano del diritto. Intanto Edoardo, senza chiedere consiglio a Wolsey, si rivolse direttamente a Clemente VII per chiedere una dispensa che gli permettesse di sposare Anna Bolena. Clemente, non era favorevole all'annullamento del matrimonio, ma concesse ugualmente la dispensa voluta, probabilmente pensando che tale concessione non sarebbe servita a nulla finché Enrico fosse rimasto sposato a Caterina. A questo punto entrarono in gioco forti pressioni politiche da parte delle diverse potenze. La Spagna cattolica non avrebbe potuto accettare il ripudio di Caterina d'Aragona e una tale mancanza di rispetto verso Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, che era figlio della sorella di Caterina, Giovanna. Stessa posizione era quella di Carlo V. Il Papa che già aveva subito il Sacco della città da parte di quest'ultimo, non voleva irritarlo ulteriormente e tergiversò allungando i tempi in vane trattative. Nel 1531, quando l'irritazione era cresciuta per 4 anni, Enrico VIII fece votare dal Parlamento un atto di supremazia in cui egli proclamava se stesso Capo della Chiesa d'Inghilterra. La parte più dura per la Chiesa, allora come ora, venne nel 1532, quando stabilì che i tributi non dovevano essere più pagati alla Chiesa ma direttamente alla corona. Finalmente nel 1533 Enrico VIII sposò Anna Bolena (Elisabetta I d'Inghilterra era nata da questo matrimonio), dalla quale già aspettava un figlio, facendosi sciogliere dal precedente vincolo dal suo rappresentante presso la Chiesa inglese, Thomas Cranmer. Nel luglio 1534, due mesi prima di morire, Clemente VII scomunicò il Re, la moglie ed il rappresentante Cranmer (interdisse pure l'Inghilterra ma della cosa non si accorse nessuno). Il problema venne preso in mano da Paolo III, successore al soglio pontificio di Clemente, quando già Enrico VIII, nel novembre dello stesso anno aveva decretato, oltre alla chiusura dei monasteri ed al sequestro di ogni bene ecclesiastico:
Un ulteriore atto di supremazia (il re era il Capo Supremo sulla Terra della Chiesa di Inghilterra) con il diritto di reprimere le eresie e di scomunicare;
L'obbligo per tutti gli inglesi di giurare solamente davanti al re, e non davanti a qualche autorità straniera come era la Chiesa;
La condanna per tradimento per chi osasse sostenere che il re fosse eretico, tiranno o scismatico.
        Nasceva così la Chiesa Anglicana che era un'altra pezzo che si aggiungeva allo scisma di Lutero ed a quello che sarebbe seguito di Calvino. Solo due persone si opposero: l'umanista autore de l'Utopia Thomas More ed ex Lord Cancelliere e l'ex confessore di Caterina, il vescovo di Rochester John Fisher. Ambedue furono decapitati.
        Sembrava che Clemente avesse avuto grandi successi ma in realtà aveva seminato solo disastri, che si misureranno negli anni a venire. Anche i nipoti da lui graziati per affari di nepotismo morirono molto presto (uno, Ippolito, da lui fatto cardinale, avvelenato nel 1535 e l'altro, Alessandro, da lui imposto al governo di Firenze, assassinato nel 1537) mentre molti avvenimenti nefasti si accumulavano sulle sorti della Chiesa. Ma Clemente VII (2) morì nel 1534 prima di poter assistere a tutti i disastri che la sua politica aveva provocato.

IL CONCILIO DI TRENTO

        Nel 1534, come visto, Clemente VII lasciava questa valle di lacrime e saliva al trono di Pietro il Papa Paolo III Farnese (1534-1549) che si disse subito disposto alla convocazione del Concilio tra l'incredulità generale. Eppure il nuovo Papa  costituì subito una commissione che si occupasse di riforma della Chiesa che arrivò nel 1537 a pubblicare un importante documento: Consilium ad emendanda Ecclesia. Intanto Paolo III riconosceva la Compagnia di Gesù, le truppe di élìte del Papa, a difesa dell'ortodossia della Chiesa di Roma che egli utilizzerà appunto come utile strumento al servizio dell'Inquisizione. I gesuiti erano e sono teorici, in base ai dettami del loro fondatore, dell'uso ed abuso fino alla paranoia, dell'esame di coscienza. Nel loro emblema incombe minacciosa la croce-spada ad indicare una giustizia intransigente e temibile. Condussero una campagna contro i diversi che "infestavano" città e contadi, tra cui eretici, stranieri, ebrei ma anche donne, magari già emarginate dal consorzio sociale (ad es. ragazze madri cacciate di casa) che conducevano vita dura vendendo filtri terapeutici o ritenuti capaci di far innamorare chi li bevesse (pocula amatoria) od anche di far impazzire se non addirittura di uccidere).
        Il nuovo Papa, che aveva 66 anni al momento dell'elezione, si era rapidamente imposto nel conclave per la sua equidistanza tra le due fazioni ancora esistenti ed agguerrite (Francesco I e Carlo V) e perché aveva ben 40 anni di esperienza curiale. Era stato fatto cardinale da Alessandro VI per una cortesia verso la bella sorella Giulia Farnese che era sua amante favorita. Anch'egli era un libertino dissoluto che ebbe molti figli dei quali solo tre riconosciuti, Pier Luigi, Paolo e Costanza. Questo suo passato garantiva alla Curia la possibilità di seguire con dissolutezze, orge e libagioni. Infatti non mancarono durante il suo pontificato, pur in una Roma distrutta ed in completa miseria, balli in maschera, banchetti, buffoni di corte, spettacoli licenziosi ai quali il papa si divertiva un mondo. Ma garantiva anche il suo sfrenato nepotismo che lo spingeva a voler rendere la famiglia Farnese tra le più potenti d'Italia. Iniziò con il fare cardinali sia Alessandro, il quindicenne figlio di Pier Luigi, sia Ascanio, il sedicenne figlio di Costanza che con gli anni risultarono essere dei mecenati. Passò quindi a fare cardinali il fratello minore di Alessandro, Ranuzio, ed il fratellastro di Costanza fermo restando che il prediletto (come dice Rendina, il Cesare Borgia del Papa Farnese) rimaneva il primogenito Pier Luigi. Fu riempito di onori e di possedimenti. Fu fatto Confaloniere dello Stato Pontificio e comandante delle truppe del Papa. Per lui creò un ducato vicino Roma con capitale Castro. A lui assegnò varie cittadine nei dintorni di Roma (Nepi, Ronciglione, Caprarola). Per lui separò due città dallo Stato Pontificio, Parma e Piacenza, per assegnargliele come ducato (1545) che resterà poi ai Farnese per circa 200 anni. Pier Luigi n on fu in grado di mantenere tutto questo tentando di farlo con la tirannia. Ciò fece ribellare i suoi sudditi che dettero lo spunto ad una congiura capitanata da Ferdinando Gonzaga ed appoggiata da Carlo V (in quanto Pier Luigi risultava essere filofrancese) che portò al suo assassinio nel 1547 (fu riempito di coltellate e gettato dalla finestra). Gonzaga si impadronì per breve tempo del ducato che fu però liberato da Ottavio, figlio di Pier Luigi, accorso da Roma. Anche Ottavio Farnese fu nelle grazie del nonno, il Papa. A soli 14 anni fu fatto sposare con Margherita d'Austria la diciannovenne vedova di Alessandro de' Medici, che ebbe in odio tale matrimonio d'interesse (il Papa si recò spesso a parlare con Margherita e da qui nacquero dicerie sugli amori senili di Paolo III con la giovane Margherita).
        Nonostante fosse occupato da tante ambasce familiari, il pover'uomo pensò anche ad alcune opere memorabili in Roma come la sistemazione della piazza del Campidoglio fatta da Michelangelo con la statua di Marco Aurelio al centro  e come il completamento della Cappella Sistina, sempre ad opera di Michelangelo con il Giudizio Universale. Ebbe tempo anche per questioni religiose come quel famoso Concilio, tanto atteso. che finalmente fu convocato il 2 giugno 1536. Si sarebbe dovuto tenere a Mantova (città in cui vi erano molti sostenitori di Carlo V) a partire dal 23 maggio 1537. Sembrava proprio che la Chiesa avesse deciso di riformarsi. Intanto Lutero pubblicava tradotto in Germania il Consilium arricchito da commenti sarcastici e ridanciani. La Curia di Roma che non voleva sentir parlare di riforme si oppose ad ogni seppur minima intenzione di cambiamento con il buon argomento che se avessero fatto qualcosa avrebbero dato motivi agli avversari che Lutero aveva ragione. Quel Consilium fu nascosto e dimenticato ed anche il Concilio fu rimandato perché Francesco I non lo voleva. Si tentò ancora per ben 5 volte di fissare data e luogo ma niente. Si tentarono accordi sotterranei con i luterani per cercare di capire cosa fare nel Concilio per riunificare la Chiesa. Vari incontri furono organizzati e niente si riuscì ad organizzare. Un prestigioso mediatore, il patrizio veneziano Gaspare Contarini, che stava conseguendo dei risultati fu cacciato da Roma con l'accusa di essere luterano. La fazione romana della Curia era la più forte ed essa vedeva un Concilio solo addomesticato in cui si riformasse molto poco ma in modo tale da far apparire ciò come grande concessione, senza comunque toccare l'autorità del Papa e la struttura gerarchica di Roma, ed in cui si condannassero con durezza le tesi luterane. Fu questa la strada che si scelse alla quale, come evidente, si accompagnò una dura repressione di ogni dissenso. Ora era chiara la strada che un Concilio avrebbe dovuto percorrere e fu così che venne convocato a Trento da Paolo III il 22 maggio del 1542 con la bolla Initio nostri huius pontificati. Fu necessaria una seconda bolla del novembre 1544, Laetare Jerusalem, per fissare al 15 marzo 1545 l'inizio dei lavori (che poi slittarono al 13 dicembre 1545 per la vigorosa iniziativa politica e militare di Carlo V). Le 25 sessioni generali del Concilio si svolsero nella Cattedrale di San Vigilio ed interessarono, dopo il Papa Paolo III, Giulio III, Marcello II, Paolo IV, Pio IV; i lavori terminarono il  4 dicembre 1563. Il Papa Pio IV con la Bolla Benedictus Deus del 30 giugno 1564 approvò integralmente i decreti conciliari e nominò una commissione per vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione degli stessi. Tornerò su questo quando arriverò a trattare Pio IV. Per ora basti dire che il Concilio nasceva con il fine di sanare gli Scismi di Lutero e della Chiesa Anglicana oltre, come sempre, di trovare una unità tra Paesi cristiani contro i Turchi. Alla fine del Concilio niente di quanto ci si proponeva fu conseguito ma se possibile, il Concilio stabilì definitivamente la rottura con gli scismatici.

Il Concilio di Trento
        Nel primo periodo di Concilio, quello che si svolse sotto Papa Paolo III, si stabilirono alcune cose: le Scritture dovevano essere interpretate dalla Chiesa e non erano ammesse loro libere letture come teorizzavano i luterani; si definirono i concetti di grazia divina e libertà umana; si fissarono i sacramenti proclamando quelli del battesimo e della cresima; si regolò l'accesso all'episcopato e quello ai benefici. Sembrava si procedesse sulla buona strada quando Carlo V, convintosi del fatto che mai i protestanti avrebbero accettato le conclusioni del Concilio, decise di risolvere il problema dello scisma con la guerra. L'Imperatore dichiarò che la Lega di Smalcalda che, come accennato, era stata organizzata con fini difensivi dai principi protestanti, era ribelle e mobilitò l'esercito. I partecipanti al Concilio ebbero paura vedendo movimenti di truppe. Il Papa pensò di spostare l'assemblea in una città dello Stato Pontificio come Bologna, abbandonando la città imperiale di Trento. Contrari a questa soluzione erano i filoimperiali, i vescovi e cardinali di Napoli e spagnoli. Vinsero coloro che auspicavano lo spostamento a Bologna anche per lo scoppio di un'epidemia di tifo che uccise uno di loro. Dopo varie tergiversazioni nel marzo del 1547 fu deciso lo spostamento del Concilio. La prima sessione a Bologna iniziò ad aprile del 1547 e durò poco più di un anno. Si discusse di: eucarestia, contrizione, confessione, estrema unzione e consacrazione sacerdotale. Tra i teologi si aprirono ampie discussioni sulle indulgenze e sul Purgatorio. In tema di riforma della Chiesa furono affrontati i problemi derivanti dal cumulo di benefici, della poca preparazione dei confessori e dei dilaganti abusi del clero. La successiva sessione, su forte spinta di Carlo V, riprese di nuovo a Trento nel 1551. Come osserva Rendina, lo spostamento del Concilio a Bologna "fu un grave errore che compromise in maniera determinante una riforma generale a cui aderissero anche i luterani aumentando al contrario i termini già netti dello scisma". Vi fu contrarietà da parte di Carlo V che credeva di risolvere tutto con le armi ma, di fatto, i luterani non sarebbero mai intervenuti in un'assemblea convocata nello Stato Pontificio. Paolo III aveva il problema della morte del figlio Pier Luigi e la cosa lo interessava poco. Sospese il Concilio nel 1548 e lo sciolse definitivamente l'anno seguente. Finiva la possibilità di una Riforma cattolica e, alla ripresa dei lavori, il Concilio divenne un'assemblea che avviò la Controriforma. Questa scelta non era comunque improvvisa perché maturava già in chi aveva istituito la Santa Romana e Universale Inquisizione. L'Inquisizione Romana era stata pensata prima che il Concilio si aprisse, tanto per mostrare l'apertura con cui la Chiesa si apprestava a riconciliarsi. Il 21 luglio 1542, Papa Paolo III emanò la bolla Licet ab initio con la quale creava l' Inquisizione Romana o Sant'Uffizio(2) sotto la guida di Giovanni Pietro Carafa che (dal 1555) sarà il futuro Papa Paolo IV. Si trattava della riorganizzazione della vecchia Inquisizione Medioevale che, pur non avendo mai smesso di funzionare, non aveva ora strumenti culturali e materiali per intervenire contro le nuove eresie e contro quel grave male che era la cultura in espansione. Era un problema di efficienza della struttura repressiva che aveva fatto pensare ad una commissione permanente di cardinali e alti prelati diretta dal medesimo Papa che doveva mantenere e difendere l'integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine. Il Carafa, lasciata al Papa la sola possibilità di concedere la grazia, dette tutto se stesso per rendere la nuova Inquisizione uno strumento repressivo di somma efficacia. Prima requisì un edificio romano e lo dotò di una prigione, quindi emanò 4 norme di procedura  per gli inquisitori: punire anche solo per sospetto; non avere alcun riguardo per i potenti; essere intransigente con chiunque avesse trovato rifugio da un potente; nessuna accondiscendenza con i calvinisti. Il futuro Paolo IV era convinto che l'azione sarebbe stata più efficace quanti più potenti si colpivano perché la salvezza delle classi inferiori dipende dalla punizione dei grandi. Inoltre, ma non lo disse, quanti più potenti si colpivano, meno avversari avrebbe avuto. In ogni caso si dette il via ad un'epurazione massiccia in ogni istituzione, ecclesiastica o laica. Ma il crudele maniaco Carafa vedeva con rabbia quella possibilità di grazia che aveva il Papa e riuscì ad arrivare al pieno della sua crudeltà, inaugurando roghi di ebrei convertiti ad Ancona e di eretici a Roma, solo quando divenne egli stesso Papa imponendo come Grande Inquisitore Michele Ghislieri che alla sua morte, come no!, divenne a sua volta Papa, l'altro criminale chiamato Pio V (e per questo santificato). Una festa di inquisitori che diventano Papi.
        Prima di concludere con questo Papa è utile riportare una sua posizione analoga a quella di Leone X sulla Favola di Cristo. Secondo una testimonianza di Diego de Mendoza, ambasciatore di Spagna presso il Vaticano, Paolo III “osava spingere la sua irriverenza verso Cristo fino al punto di affermare che non era altri che il sole, adorato dalla setta mitraica, e Giove Ammone rappresentato nel paganesimo sotto forma di montone o di agnello. Egli spiegava le allegorie della sua incarnazione e della sua resurrezione mettendolo in parallelo con Mitra. Diceva ancora che l’adorazione dei Magi non era altro che la cerimonia nella quale i preti di Zaratustra offrivano a Mitra oro, incenso e Mirra, le tre cose attribuite all’astro della luce. Egli sosteneva che la costellazione della Vergine o, meglio, della dea Iside che corrisponde al solstizio in cui avvenne la nascita di Mitra (25 dicembre), erano state prese come allegorie per determinare la nascita di Cristo, per cui Mitra e Gesù erano lo stesso dio. Egli affermava che non c’era nessun documento valido per dimostrare l’esistenza di Cristo per cui la sua convinzione era che non era mai esistito”.
        In linea teorica l'azione della nuova Inquisizione riguardava tutta la cristianità (meno il Papa) ma, nella pratica, proprio per quella territorialità che la Chiesa individuava nell'Italia, il suo operato fu quasi esclusivamente in questo Paese. Si può ben capire, comunque, come suonasse la finalità del Sant'Uffizio alle orecchie luterane alla vigilia dell'apertura del Concilio di Trento. L'iniziativa trovò subito dei ferventi sostenitori e tra essi, oltre il citato Carafa, i Gesuiti con Ignazio di Loyola.

IN ATTESA DELLA NUOVA SESSIONE DEL CONCILIO

        Il conclave per eleggere il successore di Paolo III fu un vero e proprio mercimonio principalmente tra le due eterne fazioni, quella francese e quella imperiale. Ma si verificò anche che non si ebbe a che fare con un vero e proprio conclave perché quella elezione fu fatta con le porte aperte, con i cardinali cioè che potevano muoversi liberamente per la città di Roma con lo spettacolo eccellente di trattative a cielo aperto. Dopo oltre due mesi di estenuanti trattative risultò eletto il romano Giovanni Maria Ciocchi del Monte che assunse il nome di Papa Giulio III (1550-1555). Il fatto che dopo oltre 100 anni di nuovo si aveva un pontefice romano scatenò la gioia della città che festeggiò compatibilmente con le povere disponibilità. Furono comunque feste pagane, tra cui l'uccisione di vari tori in Piazza San Pietro, molto gradite dal nuovo Papa che ebbe inoltre l'occasione di intersecarle con il nuovo Giubileo del 1550.
        Ed i banchetti in feste di lusso furono una costante del suo pontificato. Erano allietati da buffoni di corte che divertivano con licenze piccanti molto gradite, così come il teatro piccante, al Papa. Amava lusso e bella vita e per questo si fece costruire la imponente Villa Giulia, con un parco gigantesco, fuori Porta del Popolo. Naturalmente fu un nepotista accanito: ogni parente del Papa ebbe un incarico estremamente redditizio negli affari vaticani sia a Roma che nello Stato Pontificio. Anche il suo supposto figlio, Innocenzo del Monte, che passò da quindicenne depravato e guardiano di scimmie alla porpora cardinalizia ed alla responsabilità della Segreteria di Stato (era nominale perché il piccolo selvaggio era assolutamente incapace di assolvere quel compito).
        Unica parte di rilievo nell'operato di questo inutile fu la riconvocazione del Concilio di Trento proprio a Trento per il 1° maggio 1551. Ad esso invitò i principi tedeschi che già si erano espressi in favore di Lutero. Si discusse di eucarestia, confessione ed estrema unzione. Quando però intervennero i protestanti saltò ogni possibilità di accordo con le posizioni dogmatiche della Chiesa. Il Concilio fu sospeso nell'aprile del 1552 e non fu riconvocato per circa 2 anni. A lato delle divergenze insanabili in sede di Concilio era iniziata una nuova controversia tra Carlo V ed il Papa. Si trattava del ducato di Parma alla cui testa vi era, come si ricorderà, Ottavio Farnese. Carlo voleva riprendere a sé la città di Piacenza. Ottavio chiese l'aiuto del nuovo Re di Francia, Enrico II. Il Papa prima accondiscese alle richieste di Carlo V, quindi, dopo le minacce di Enrico II, accondiscese alle sue richieste. Niente di nuovo rispetto a giravolte già note che screditavano sempre più lo Stato Pontificio. Vi fu comunque un avvenimento che sembrò andare nel senso degli interessi della Chiesa. In Inghilterra l'unica figlia di Enrico VIII con Caterina d'Aragona, Maria (nata nel 1516) era stata reinserita nella linea di successione di Enrico VIII da una legge del Parlamento del 1544. Prima di lei vi era Edoardo troppo piccolo per poter governare, quindi vi era lei e, dopo di lei, quella che sarà Elisabetta I. Edoardo ereditò ufficialmente la corona e divenne Edoardo VI. Ma aveva nove anni. A norma della legge citata del 1544 e secondo le volontà di Enrico VIII, a Edoardo (in mancanza di una sua discendenza) sarebbe succeduta Maria. Se Maria non avesse avuto figli, la corona sarebbe passata alla figlia avuta da Anna Bolena, Elisabetta. E se anche Elisabetta non avesse avuto figli, la successione sarebbe tornata ai discendenti della sorella defunta di Enrico VIII, Maria Tudor. Edoardo morì nel 1553 e, anche se vi furono manovre per non rispettare la legge del Parlamento  (Edoardo prima di morire aveva indicato in un'altra persona, Lady Jane, l'erede al trono ma senza che il Parlamento avesse legiferato in proposito) Maria salì al trono d'Inghilterra come Maria I d'Inghilterra. Sembrava quindi che fosse possibile, con Maria I, riportare la Chiesa inglese nell'alveo di quella di Roma. Il Papa morì nel 1555 e non fece in tempo a vedere come andarono le cose: Maria morì nel 1558 ed in base alla legge del 1544 fu Elisabetta I a divenire Regina d'Inghilterra (anche qui con intrighi, condanne a morte ed anche questioni religiose che avevano fatto maturare l'idea che in Inghilterra non vi fosse più posto per sovrani cattolici).
        A questo ennesimo campione di Santa Romana Chiesa seguì un Papa che, per le sue doti di rigore ed onestà, riconosciute da tutti, fu scelto per portare avanti la Riforma.  Aveva presieduto il Concilio di Trento con la sua spiritualità ed illibatezza. Era il cardinale Marcello Cervini che, quando fu eletto, non cambiò il nome per mostrare che non cambiava di costumi. Assunse quindi il nome di Papa Marcello II (1555). Era un antinepotista che addirittura vietò ai suoi parenti di venire a Roma. Sembrava un vero miracolo, anche il vasellame prezioso fece togliere dalla tavola e sembrava che finalmente vi fosse un rappresentante evangelico. Ma i veri riformisti riuscirono a sperare in lui solo 20 giorni, dal 10 aprile al 1° maggio. Poi morì. Evidentemente Dio doveva essere quello malvagio del Vecchio Testamento: ogni volta che sembrava annunciarsi un Papa evangelico Egli lo ammazzava (era già successo con Pio III ed Adriano VI). E proprio per rendere ragione al Dio malvagio del Vecchio Testamento il successore fu quell'indegna figura del cardinale Gian Piero Carafa, già incontrato nella fondazione dell'Inquisizione Romana e notoriamente avverso a Carlo V, che assunse il nome di Papa Paolo IV (1555-1559). Anche qui i riformatori furono contenti per questa scelta ed a noi resta da chiedersi come sia stato possibile festeggiare l'elezione di Marcello II e un mese dopo quella di Paolo IV.
        I riformatori capirono presto che questo Papa non aveva interesse per l'unità dei cristiani e che tese tutte le sue energia alla politica, bieca e profondamente reazionaria (di lui i romani dicevano che se sua madre avesse previsto il suo futuro lo avrebbe strangolato nella culla). L'elezione vide il ritorno dei riti sfarzosi, degli ori e degli argenti, perché, come egli argomentava, occorreva incutere timore e rispetto agli altri e particolarmente ai sovrani in visita che avrebbero dovuto ascoltarlo a bocca aperta ed in ginocchio. Scrive in proposito Rendina: "Il papa-re emergeva nella figura di chi oltretutto non può sbagliare, col tono di superbia e sicumera di chi si ostentava a «duce» mentre «vagheggiava un ideale grande e nobile: liberare l'Italia ed il papato dalla opprimente preponderanza spagnola» come scriveva il Castiglioni durante il ventennio fascista su questo Papa, sottolineando con orgoglio come egli «mirava a stringere in un fascio (sic!) tutti i principi d'Italia contro la Spagna» e ricordando che, di fronte al venir meno della sognata coalizione patriottica dei sovrani italiani, «con fierezza d'animo protestava, senza perdersi d'animo quel pontefice nazionalista [...]»". Finalmente uno storico, il Castiglioni, che aveva capito tutto e confondeva allegramente Italia con Stato Pontificio.
        Dato il discredito del papato e l'ormai obsoleta dipendenza dalle incoronazioni e dalle autorizzazioni papali, Carlo V aveva firmato il 25 settembre 1555 la Pace di Augusta, senza appunto farne partecipe la Chiesa. Era una pace religiosa tra tutti i principi tedeschi secondo la quale era possibile nei territori del Sacro Romano Impero scegliere tra cattolicesimo e luteranesimo (e basta). Inoltre la popolazione doveva aderire alla religione del principe di quel territorio oppure doveva cambiare regione. Infine i beni ecclesiastici passavano nella disponibilità dei vescovi che passavano al luteranesimo senza che il principato potesse incamerarli. Contestualmente a ciò Carlo V abdicò a favore di suo figlio Felipe II in Spagna e di suo fratello Ferdinando I d'Asburgo come successore imperiale. Il Papa era furioso perché veniva decretata la sua marginalità oltre alla presa d'atto dello scisma luterano che, alla fin fine, rendeva superfluo il Concilio per una qualche pace religiosa tanto più che Ferdinando aveva accettato tutto il contenuto della Pace di Augusta. Tentò mosse tanto disperate quanto stupide: decretò in un concistoro che l'atto di abdicazione di Carlo non era valido e quindi che Ferdinando non era legittimato al trono dell'Impero. Per portare avanti questa crociata non si servì dei vari uomini della Chiesa ma solo dei suoi parenti. Un «duce» agisce così, per Giove ! Il fatto è che il poveretto non capiva nulla di politica ed era guidato solo dal suo egocentrismo che si coniugava con uno sfrenato nepotismo (i parenti non offuscano il padre padrone). Anche qui Rendina coglie bene la situazione: "Appare gratuito giustificare questo nepotismo di Paolo IV, adducendo motivi di stampo patriottico [come aveva fatto quello storico fai da te, ndr], perché il fatto che egli abbia costituito possedimenti per i nipoti con territori ecclesiastici, che abbia innalzato un soldato alla direzione degli affari religiosi, che abbia compiuto atti di guerra e versato del sangue è pur sempre lontano dallo spirito puro del cristianesimo. L'etichetta patriottica è una maschera che nasconde ragioni ecclesiastico-personali".
        Rendina, quando parla del soldato elevato alla direzione degli affari ecclesiastici, si riferisce al nipote (siamo certi ?) Carlo Carafa, suo preferito. Era uno sregolato capitano di ventura, spregiudicato e di malaffare, che lo zio fece subito cardinale (assolvendolo a priori dei mali che aveva fatto e avrebbe potuto fare) per passarlo poi a Segretario di Stato (Primo Ministro) del Vaticano. ERa un abile personaggio che seppe tenere in pugno Paolo trattandolo da marionetta. Le gestioni fallimentari dei rapporti di Felipe II con Ferdinando I furono opera sua. Riuscì a creare un incidente nel porto di Civitavecchia, invischiando con alcune lettere, che avrebbe scritto a Ferdinando I, il cardinale Ascanio Colonna che mise l'uno contro l'altro i due eredi di Carlo V e condì il tutto con un'alleanza dello Stato Pontificio con la Francia (fine del 1555), che s'impegnava a difendere lo Stato Pontificio, anche se il Papa aveva un pessimo giudizio sia di spagnoli che di francesi con i quali ultimi avrebbe, secondo lui, regolato le cose a suo tempo. Ed anche se mostrò di avere una memoria cortissima che gli aveva fatto dimenticare il Sacco di Roma. L'utile immediato fu la confisca delle terre dei cardinali legati all'Impero, terre che passavano al nipote.
         La Spagna colse l'imbroglio della politica casereccia del Papa e da Napoli fece partire un esercito, guidato dal Duca d'Alba, verso Roma. Le truppe francesi dovettero ritirarsi per impegni su altri fronti (battaglia di San Quintino). Di nuovo Roma era potenzialmente in balìa di un esercito invasore per colpa di alcuni imbecilli che operavano per maggior gloria di Gesù. Per una provvidenziale mediazione di Venezia l'esercito spagnolo si fermò sotto le mura della città ma il Papa dovette riconoscere Felipe II come buon sovrano cattolico e dovette rinunciare all'alleanza con la Francia dichiarandosi neutrale (Pace di Cave del settembre 1557).
        Altra bestialità la fece Paolo IV con l'Inghilterra. Nel 1559 l'ambasciatore inglese Edward Carne lo informò che Elisabetta I Tudor aveva seguito Maria I sul trono d'Inghilterra. Paolo che odiava tutte le donne, ritenendole come Tommaso d'Aquino uomini "abortiti", e che aveva avuto un debole per Maria, perché  aveva riesumato e bruciato il cadavere del padre in quanto eretico, ed operando con il rogo con i protestanti. Paolo chiese all'ambasciatore se Elisabetta si rendeva conto che l'Inghilterra era una proprietà della Santa Sede fino dall'epoca di Re Giovanni? Sapeva che un illegittima non può ereditare? Non aveva letto la sua ultima Bolla? Capiva che era pura audacia la sua di pretendere di governare l'Inghilterra, che apparteneva di diritto al papa? No, non poteva permetterle di continuare. Forse se la bastarda, l'usurpatrice, l'eretica avesse rinunciato alle sue ridicole pretese e si fosse presentata immediatamente a lui per chiedere perdono.... Elisabetta, due mesi dopo, ruppe le relazioni diplomatiche con Roma.
        Intanto Carlo Carafa, il cardinale condottiero ed imbroglione, spopolava in Curia e la sua omosessualità era divenuta intollerabile scandalo denunciato a più riprese dal cardinale di Lorena(3). Questo fatto (e non altri !) fece cambiare atteggiamento a Paolo che nel concistoro del gennaio 1559 condannò pubblicamente il comportamento dei nipoti e riprese i propositi di Riforma sia dello Stato che della Chiesa. E come fece il ducetto a riformare ? Non certo riprendo le sessioni del Concilio ma affidandosi ad un potenziamento ed inasprimento feroce dell'Inquisizione Romana ed ad uno dei peggiori crimini contro l'umanità, l'introduzione dell'Indice dei Libri Proibiti.
        Una delle prime iniziative dell'Inquisizione Romana sotto la direzione di Paolo IV, insieme al problema del catechismo(4) e della riforma dei libri liturgici, riguardò la redazione dell'Index librorum prohibitorum(5) (noto come Indice Paolino) il primo dei quali venne pubblicato nel 1559. Ad esso seguirono nel 1564 quello realizzato da Pio IV e nel 1596 quello di Clemente VIII (l'Indice clementino), il Papa antisemita che fece assassinare Giordano Bruno. Per completezza devo dire che un Indice era richiesto anche da insospettabili come quel Francesco Maurolico, matematico e meccanico, che ebbe a che fare con la formazione di Galileo. Questi proponeva non solo l'eliminazione di tutti i libri di autori sospetti ma anche l'auspicio che da Roma si portasse avanti l'edizione di opere di autori ortodossi perché in Italia si era diffusa la peste degli scritti luterani, eretici ed antropophagi tedeschi. Ma di Indici ve ne erano stati dei precedenti pubblicati a Roma (Cathalogus librorum Haereticorum con libri luterani ed anche con i Commentari di Pio II al Concilio di Basilea), Venezia (1549), Milano, Parigi e Lovanio nel 1554 (ma anche altri in epoca precedente e successiva comunque antecedente al 1559). Questi Indici avevano comunque validità locale molto limitata e non si avevano pene come quelle previste per l'indice del 1559.
        L'operazione era perfettamente in linea con l'avanzare inarrestabile della cultura, della conoscenza che son0o sempre state le peggiori nemiche della Chiesa che vive in un'abissale ignoranza del gregge. Occorreva stroncare le fonti e l'Index serviva a questo(6). I decreti che definivano l'Index contenevano, tra le altre cose, il divieto di stampare, leggere e possedere versioni della Bibbia in lingua volgare senza previa autorizzazione personale e scritta del vescovo, dell'inquisitore o addirittura dell'autorità papale (nel primo indice venivano vietate 45 versioni della Bibbia e del Nuovo Testamento in lingua volgare; tale divieto resterà fino al 1758 quando fu abrogato da Papa Benedetto XIV). Come conseguenza di questo provvedimento la produzione di Bibbie in italiano subì un brusco arresto. E' utile avere un qualche riferimento degli autori che comparivano nel primo Index: Luciano di Samosata, Dante, Petrarca, Boccaccio, Ockham, Machiavelli, Erasmo, Rabelais. Più in generale erano all'Indice tutti gli autori non cattolici, 126 testi di 117 autori cattolici, 322 opere anonime, tutte le opere di astrologia e magia. La Bibbia si poteva leggere solo su permesso scritto di qualche prelato ed il permesso era concesso ai soli uomini che conoscessero il latino. Nel 1564, dopo la chiusura del Concilio, l'Indice viene aggiornato e diventa Indice Tridentino. La novità qui consisteva nella possibilità di togliere dai libri i passi ritenuti offensivi alla fede cattolica. Ciò comportò un altro elenco di libri da affiancare a quello dei libri proibiti, quello dei libri da espurgare, l'Index Librorum Expurgatorius, con la conseguenza che molti libri così ritagliati risultavano incomprensibili e contraddittori. Si e avanzavano qualche teoria in disaccordo con l'Aristotele della Scolastica, quello di Tommaso d'Aquino che, proprio in quegli anni (1567), veniva da Pio V nominato Dottore della Chiesa. Un'altra bolla del 1564 si inseriva in una questione estremamente delicata, il controllo di coloro i quali iniziavano ad alfabetizzarsi attraverso il controllo degli insegnanti da parte di esami del vescovo, dei luoghi in cui si svolgeva e dei testi che utilizzavano (la Chiesa, come accennavo, è sempre stata contraria all'alfabetizzazione di massa ritenuta un grave pericolo).
        La costruzione di un Indice non era però cosa facile che potesse fare qualcuno di sua iniziativa. Fu necessario istituire un gruppo di persone che fosse in grado di decidere cosa proibire o espurgare. Nel 1571 Papa Pio V, il Papa che vietò la pubblicazione di opere nelle lingue volgari (1567), che abrogò il carnevale, che con una bolla fece chiudere tutte le sinagoghe di Roma, che fece convocare il Veronese perché desse spiegazioni sul suo dipinto Cena in casa di Levi obbligandolo alla modifica e che espulse gli ebrei dai territori dello Stato della Chiesa, organizzò ed istituì la  Congregazione per l’Indice, costituita da alcuni cardinali e vari consultori esterni, con lo scopo di tenere aggiornato l'Indice e di diffonderlo in ogni luogo della cristianità attraverso gli inquisitori locali (tanto per mostrare la valenza dell'Indice). Per parte sua il Sant'Uffizio, che aveva preso il posto dell'Inquisizione, voleva gestire in proprio la scelta dei libri da porre all'Indice. Riuscirà nel suo scopo solo nel 1916 quando la Congregazione verrà abolita con il Sant'Uffizio ancora vivo e vegeto (con un cambiamento di nome nel 1965, Congregazione per la Dottrina della Fede.
        Questo Papa ebbe molto di più da fare contro gli ebrei, gli assassini [loro ! ndr] di Gesù.  Il 12 luglio del 1555 emise la Bolla Cum nimis absurdum che istituiva la creazione del Ghetto di Roma, il serraglio degli ebrei; gli ebrei vennero quindi costretti a vivere reclusi in una specifica zona del rione Sant'Angelo. Anche in altre città dello stato pontificio gli ebrei furono rinchiusi in ghetti e obbligati a portare un copricapo giallo (glauci coloris), per essere immediatamente individuati. Agli ebrei veniva  proibito di esercitare qualunque commercio ad eccezione di quello degli stracci e dei vestiti usati. Inizialmente erano previste due porte che venivano chiuse al tramonto e riaperte all'alba.
Paolo IV fu un acceso antisemita che impose conversioni forzate, in alternativa all'espulsione, battesimi di bimbi ebrei e altre infamità. Aveva addirittura mandato ad Ancona due commissari straordinari per arrestare e processare gli ebrei apostati che dal 1540 erano fuggiti dal Portogallo e si erano stabiliti in città. Nel 1556 furono impiccati e bruciati al rogo 24 marrani che si erano rifiutati di convertirsi alla religione cattolica. Per maggiore gloria di Gesù.
        Queste erano le armi che Paolo IV voleva utilizzare per la Riforma che però, in tal modo, divenne solo una Controriforma che volle imporre il credo (non quello religioso) della Chiesa a tutta l'umanità e chi non si adattava doveva essere affidato all'Inquisizione come eretico. L'operazione sarebbe servita forse a rafforzare la Chiesa al suo interno ma certamente ad escludere più che ad unire.
        Ancora in cose di Chiesa nel 1558 fece un ripetitivo ed inutile intervento. Con la bolla Cum secundum Apostolorum tentò di evitare che la scelta di un pontefice avvenisse al di fuori del Conclave evitando in sommo grado la simonia.
        E da ubriacone qual era diventato lasciò questa valle di lacrime(7) con Pasquino che scrisse di lui:
Carafa in odio al diavolo e al cielo è qui sepolto
col putrido cadavere; lo spirto Erebo ha accolto.
Odiò la pace in terra, la prece ci contese,
ruinò la chiesa e il popolo, uomini e cielo offese;
infido amico, supplice ver l'oste a lui nefasta.
Di più vuoi tu saperne? Fu papa e tanto basta.
        Fece posto ad un candidato di compromesso mite e schivo, infatti il conclave che seguì, durato 4 mesi, elesse al Soglio Pontificio Giovan Angelo de' Medici che assunse il nome di Pio IV (1559-1565). Va subito detto che questo Papa non aveva nulla a che fare con la famiglia Medici di Firenze che aveva dato prove tanto disastrose nel papato. Egli proveniva da umile famiglia milanese che aveva raggiunto un certo grado di agiatezza grazie all'abilità ed al lavoro del fratello maggiore che si era distinto in una brillante carriera militare fino a diventare marchese e sposare una Orsini, cognata del cardinale Farnese. Ma i romani, sentito che l'eletto era un Medici, pensarono di tornare alle vacche grasse di Leone X e si scatenarono in riti sacrileghi per le strade. Appena eletto, il nuovo Papa, da persona comprensiva qual era, perdonò gli eccessi e, fatto molto più importante, criticò l'operato dell'Inquisizione riportandola all'ambito originale e moderò le iniziative dell'Indice. Egli era un assertore della Riforma da fare con il Concilio, che fece riaprire e che sotto il suo pontificato si concluse, e non con i metodi dell'Inquisizione.

IL CONCILIO SI CONCLUDE

        Pio IV iniziò a muoversi con vero spirito ecumenico. Non ebbe da rivendicare nulla con i sovrani cattolici. Li riconobbe tutti come entità esistenti indipendentemente dalla volontà della Chiesa e con loro iniziò a cercare accordi per riprendere le sessioni del Concilio di Trento. Dopo aver contattato Ferdinando I e Felipe II ed avere preso atto che tra Asburgo (corona imperiale) e Valois (corona francese) si era stabilita la pace tra cristiani sottoscritta nel 1559 nel Trattato di Cateau-Cambrésis, alla fine di novembre del 1560 annunciò con una Bolla la riapertura del Concilio di Trento per la Pasqua del 1561 anche se poi di fatto riaprì solo a gennaio del 1562. Uno dei motivi che spinsero Pio alla convocazione rapida della terza sessione del Concilio fu la nascita del movimento calvinista in Svizzera che stava dilagando anche in Francia. Nei colloqui tra Felipe II e Pio IV era nata la preoccupazione che in Francia si sarebbe potuto convocare un Concilio Nazionale per sanare i contrasti che dividevano lo Stato e ciò avrebbe potuto significare una nuova lacerazione nella Chiesa (quel Concilio Nazionale fu poi convocato a Poissy nel 1561 ma i vescovi francesi non furono d'accordo con il Re nel riformare la Chiesa in Francia in modo da trovare accordi con i calvinisti). Insomma vi erano contagi in tutta Europa ma Pio confidava di mantenere l'integrità di Italia e Spagna. E la Francia si accodò mandando suoi rappresentanti a Trento. Vi furono infinite dispute iniziali anche relative all'accettazione o meno di quanto già deciso. Ci volle molto tempo, con un paio di presidenti del Concilio (Ercole Gonzaga e Seripando), che morirono essendo fisicamente esausti, prima di incanalare, con la presidenza del cardinale Morone, il Concilio su una strada fruttifera. Servì una trattativa con i sovrani dei maggiori Paesi cattolici per stabilire che gli argomenti all'ordine del giorno erano di competenza autonoma della Chiesa e non emanazione di cardinali al servizio di quei Paesi. Dopo estenuanti incontri e scontri di lavoro nelle diverse commissioni religiose e teologiche, che evidenziarono l grande divisione tra la Curia ed i Vescovi, il Concilio arrivò a conclusione, sotto la spinta di Morone anche per voci che davano il Papa in fin di vita.
        Tra i vari possibili temi vennero affrontatati quelli: del sacrificio della Messa come "ripresentazione" del sacrificio di Gesù, condannando con ciò le idee luterane e calviniste della Messa come semplice "ricordo" dell'ultima cena e del sacrificio di Cristo; della Chiesa come gerarchia che discende da Pietro, con il Papa vicario di Cristo e con i vescovi successori degli apostoli; dell'indissolubilità del matrimonio e del celibato degli ecclesiastici; della natura del Purgatorio; del culto dei santi, delle reliquie e delle immagini sacre; delle indulgenze. Altre questioni non trattate per mancanza di tempo, tra cui quella dell'Indice, furono demandate alla Curia.
        A giugno del 1564 il Concilio fu dato per concluso con la Bolla Benedictus Deus, e Pio IV approvò tutti i decreti conciliari incaricando una commissione di vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione degli stessi.
        Tutto era andato secondo i voleri della Curia romana che aveva vinto sui vescovi. Riforme marginali (ma in ben 250 punti rispetto ai vari diritti precedentemente in vigore), rafforzamento dell'ortodossia e della centralizzazione di ogni minima decisione a Roma e dura condanna del protestantesimo. Seppur vi fosse stato un qualche cambiamento nel senso dell'apertura e della riconciliazione, venne fagocitato dal Papa che, con il solito metodo pretesco, di fronte a chi interpretava alcuni dettami conciliari in senso vicino a chi voleva cambiare e chi in senso vicino alla curia romana, decise salomonicamente che ogni interpretazione poteva essere solo demandata a LUI. Ed un primo risultato si ebbe subito: gli atti del Concilio furono bloccati alla pubblicazione e si seppe di loro solo alla fine del XIX secolo (!). Ciò permise al Papa completa discrezione anche perché quella commissione che doveva vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione dei decreti conciliari, era fatta da cardinali e personale della curia romana e chi avesse voluto protestare per la non applicazione di qualche decreto, non poteva farlo perché non lo conosceva. In ogni caso la fine del Concilio di Trento segnava la data d'inizio della Controriforma (o Riforma Cattolica). Il Concilio comunque riformulò e ribadì la dottrina cattolica riguardo ai punti che erano stati posti in discussione: la giustificazione (ossia i mezzi per la salvezza dell'anima), l'interpretazione delle Sacre scritture da parte della chiesa, i sacramenti (in particolare, si riaffermò la transustanziazione, secondo cui nell'Eucarestia si ha la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino consacrati), la liturgia, il culto dei santi e della Madonna, l'uso delle indulgenze e l'obbedienza alla chiesa e al pontefice. E fece qualcosa di gravissimo, equiparò le Sacre Scritture alla tradizione della Chiesa elevando quest'ultima ad una Sacra Scrittura, con cioè una medesima autorità.

Il Concilio di Trento
        Dalla Germania venne subito nel 1565 una risposta con l'Examen Concilii Tridentini del luterano Martin Chemnitz. Era una totale stroncatura del Concilio, che ebbe profonda influenza per secoli, che, in più, con citazioni teologiche molto dotte entrava in polemiche dottrinali sui sacramenti divaricando sempre più il solco tra le due Chiese. I difensori dell'ortodossia cattolica (domenicani e gesuiti) non sapevano bene cosa rispondere perché non conoscevano i decreti conciliari ... che non potevano conoscere perché non potevano accedervi. Intanto gli anni passavano ed anche gli anziani testimoni conciliari sparivano con la conseguenza che ogni memoria del Concilio spariva. Intanto i luterani, a cui si associarono i calvinisti, già del 1562 negarono ogni validità al Concilio il cui scopo era perfettamente raggiunto, la divisione tra le Chiese era definitiva e sempre più incarognita. Ed anche l'Impero, Sacro e Romano, con Ferdinando I, per la prima volta non accettò il responso di una istituzione ecclesiastica.
        E non sembri che tutto marciava con dispute, magari violente, ma solo con manifestazioni verbali. Le guerre, soprattutto se di religione, sono le peggiori e chi ha forza e mezzi li usa. E la seconda metà del Cinquecento fu un terreno fertile per farne. Nel 1562 i cattolici massacrarono la comunità protestante di Vassy in Francia; nel 1572 ancora i cattolici massacrarono i protestanti Ugonotti (erano i francesi protestanti di tendenza calvinista) nella Notte di S. Bartolomeo (sette guerre fossero necessarie prima che terminasse in Francia la contesa tra cattolici e ugonotti); nel 1587 la protestante Elisabetta I di Inghilterra fece uccidere la cattolica Maria Stuart per problemi di successione al trono.
        Oltre a questo compito molto importante anche se fallimentare per l' unità della Chiesa (e non per colpa di Pio IV) vi sono altre vicende di questo Papa che meritano attenzione.
        Durante la sede vacante che portò all'elezione di Pio IV, Giovanni Carafa, fratello del più volte citato Carlo, ambedue nipoti di Paolo IV, aveva ammazzato personalmente il presunto amante di sua moglie che aveva avuto uguale sorte essendo stata fatta strangolare. Pio IV volle dare una punizione esemplare ai nipoti, più delinquenti che sregolati, del suo predecessore. Li fece arrestare tutti con l'accordo di tutti i cardinali meno uno, Ghisleri, che era stato l'Inquisitore Generale con Paolo IV. Vennero tutti condannati a morte con il sequestro di ogni loro bene e solo il più giovane, il cardinale Alfonso, ottenne la grazia (anticipo solo che Ghisleri sarà il successore di Pio IV con il nome di Pio V e che rivedrà il processo annullando la sentenza e, soprattutto, restituendo i beni ai Carafa). Non era comunque un processo al nepotismo perché, quando ho parlato bene di questo Papa, non ho detto che fosse contrario al nepotismo. Anzi ! Egli fu nepotista come gli altri estendendo il nepotismo non solo alla sua famiglia m anche a quelle in qualche modo legate alla sua: i Serbelloni, gli Hohenems ed i Borromeo. Sull'ultima famiglia in particolare andarono moltissimi favori ed in modo rilevante a Carlo Borromeo, fatto cardinale e fiduciario di Pio IV (fu Borromeo che spinse nel senso della Restaurazione cattolica). Anche Roma ebbe qualche beneficio, ancora con l'opera di Michelangelo, che dalle Terme di Diocleziano ricavò la Basilica di Santa Maria degli Angeli (anche Borgo Pio, il quartiere che lega Castel Sant'Angelo con la Basilica di San Pietro, sorse sotto il suo pontificato).
        Amava il lusso e lo sfarzo ma si sa che donò ai poveri e morì senza arricchimenti personali. Suo successore sarà un altro criminale ed incallito assassino, l'Inquisitore Generale sotto Paolo IV, il cardinale domenicano Michele Ghisleri.


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